ARTE, FOLCLORE, TRADIZIONI

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Pittura

Forlì è una città poco conosciuta e frequentata, forse anche a causa di un centro storico senza particolari bellezze. In realtà Forlì è una città con un’anima artistica nascosta, che, se riscoperta, può far ricredere molti su questa città. Pochi sanno che Forlì, durante il Rinascimento, ebbe un ruolo molto importante nell’arte, e tra le sue botteghe si sviluppò uno stile molto originale, a metà tra arte fiorentina e veneziana. A Forlì nacquero alcuni tra i più ricchi e famosi artisti della storia, come Melozzo da Forlì (di cui non è rimasto niente in città, distrutto dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale) e il suo allievo Marco Palmezzano.
Scuola forlivese Nell'ambito delle arti figurative, con scuola forlivese si può indicare un gruppo di artisti, principalmente pittori, che era attivo nella città romagnola di Forlì dalla fine del Medioevo fino al Manierismo. A Forlì, in particolare, lavorò la coppia Melozzo da Forlì-Marco Palmezzano che pose l'accento su complesse, e in parte inedite, forme di prospettiva per ambientare le scene sacre, come la visione "da sott'in su". A proposito della scuola forlivese Antonio Paolucci scrisse: "A Forlì l'arte figurativa assumeva aspetti distinguibili rispetto a quelli pur simili e fraterni presenti nelle città vicine. Il responsabile della differenza, l'artista che ha dato alla Forlì del Rinascimento una sua specifica identità, è stato Marco Palmezzano". Pittura, scultura, architettura Nel tardo Medioevo Forlì godette di una posizione privilegiata tra lo snodo della via Emilia e quello delle strade che, attraverso Ferrara, andavano da Venezia al centro-Italia, in particolare a Roma, come dimostra il passaggio per Forlì di vari itinerari delle cosiddette vie Romee; inoltre fu vicina a centri innovativi quali Rimini, Urbino e la stessa Ferrara, e il suo territorio confinava anche con quello di Firenze tramite la vicinissima Romagna fiorentina. Elementi propulsori della vita artistica furono i vescovi e i potenti abati di San Mercuriale. Nel XIV secolo tutta la Romagna fu influenzata dal passaggio di Giotto a Rimini, generando un folto gruppo di seguaci che diffusero presto le novità del maestro fiorentino. A Forlì, dopo l'esperienza bizantina del Maestro di Forlì, si trovano nella seconda metà del Trecento pittori interessanti e vivaci quali Guglielmo da Forlì, che Adriana Arfelli lo definisce come il "mitico fondatore della scuola pittorica forlivese", Baldassarre Carrari il Vecchio, Augustinus, Giovanni di Mastro Pedrino. Nella seconda metà del Quattrocento alcuni pittori forlivesi portarono in patria precocemente le novità elaborate a Padova dalla scuola dello Squarcione e dagli artisti attivi nella cappella Ovetari, tra cui il giovane Andrea Mantegna. In particolare Ansuino da Forlì fu quello che seppe assorbire queste novità (lavorando anche a fianco di tali maestri) e proporle in patria, riscuotendo un successo che testimonia l'apertura della comunità all'umanesimo. Ansuino fu il maestro diretto di Melozzo, un artista eccezionale che seppe cogliere il meglio di quello che veniva prodotto nell'Italia nord-orientale, tra Mantegna, Piero della Francesca e Giovanni Bellini. A lui si attribuisce lo sviluppo pieno della prospettiva con veduta dal basso, di cui diede eccellente prova nella Sagrestia di San Marco a Loreto, o nei frammentari affreschi per la basilica dei Santi Apostoli a Roma. La sua memoria è tuttavia penalizzata dalla sfortuna che, nei secoli, ha distrutto o pesantemente compromesso circa il 90% della sua produzione. Raccolse la sua eredità, ormai alle soglie del XVI secolo, Marco Palmezzano, artista che guardò anche alle novità provenienti da Firenze (in particolare dagli allievi di Verrocchio), dal Veneto e dall'Umbria (Perugino, Pinturicchio). Fu autore di grandi pale spesso affollate di personaggi e ricche di dettagli preziosi, con il ricordo degli arditi artifici prospettici imparati dal suo maestro. Tuttavia, come molti grandi maestri attivi tra Quattro e Cinquecento, non scavalcò mai il confine della "Maniera Moderna": ignorò Leonardo, Raffaello e gli altri grandi innovatori della sua epoca, restando sempre fedele al disegno graficamente curato, all'atmosfera asciutta e alla colorazione convenzionale, tutti elementi tipici dell'appena trascorso XV secolo. In quegli stessi anni lavorarono in città anche alcuni maestri minori, come Baldassarre Carrari e il cosiddetto Maestro dei Baldraccani. Della generazione seguente fecero parte Francesco Menzocchi e Livio Agresti, artisti ormai pienamente inseriti nella corrente del manierismo di ispirazione tosco-romana. In quel periodo la scuola ricevette un forte impulso da due successivi vescovi di Forlì, Pier Giovanni Aleotti (1551-1563) e Antonio Giannotti (1563-1578), che con azioni incisive portarono la città a essere "citata come esempio di ortodossia e di zelo religioso". In particolare, negli anni sessanta del secolo, il patetismo nell'arte forlivese sembra sostanzialmente "in anticipo sui fatti romani degli anni settanta". Gian Francesco Modigliani, nella seconda metà del Cinquecento, fu un artista che apprese la lezione del Tintoretto con una pennellata sciolta e composizioni ardite. Tra gli architetti del Rinascimento si ricorda Pace di Maso del Bombace. Nei secoli successivi non vi fu continuità, incontrando nella scena artistica alti e bassi. Tra gli epigoni del XVIII secolo un certo interesse è legato alla figura di Antonio Belloni. Tuttavia non si può ignorare la presenza in città, per circa vent'anni, del bolognese Carlo Cignani, che vi lasciò il proprio capolavoro nella cupola dell'Assunta in Duomo. Quanto al periodo tra XIX e XX secolo, "a Forlì si può parlare di una locale scuola che, dopo Antonello Moroni, vanta i nomi di Pietro Angelini, Giovanni Marchini e Carlo Stanghellini prima di giungere alla generosità creativa di Maceo Casadei e di suoi emuli come Gino Mandolesi e Gianna Nardi Spada". Negli anni venti del Novecento Forlì fu il centro del Cenacolo Artistico Forlivese. Argenteria Non mancano anche celebri argentieri, come quel Giovanni Giardini, vissuto tra XVII e XVIII secolo, che fu argentiere pontificio a Roma. A lui si deve, ad esempio, un bel Reliquario di san Mercuriale (1719 - 1720). Ceramica Dal Medioevo a Forlì esiste una tradizione di produzione di oggetti in ceramica e sculture in terracotta, con artisti come Leucadio Solombrini. Tale tradizione risulta ancora attiva negli anni venti del Novecento, con la Ca' de fug di Giulio Vio e con la Flamigli Ceramiche di Luigi Flamigni. Lavorazione del legno, intaglio, liuteria Anche la lavorazione del legno, e in particolare l'intaglio, ebbe a Forlì una certa fioritura. Né vi mancarono i maestri liutai. Artisti Tra gli artisti riconducibili a questo ambito, si ricordano: Livio Agresti, pittore Ansuino da Forlì, pittore Augustinus, pittore Armando Barbieri, liutaio Licinio Barzanti, pittore Antonio Belloni Francesco Brunelli, intagliatore (secolo XVII) Baldassarre Carrari il Giovane, pittore Baldassarre Carrari il Vecchio, pittore Maceo Casadei Leone Cobelli Augusto Antonio Dirani Antonio Fanzaresi Giovanni Giardini, argentiere Giovanni di Mastro Pedrino Girolamo da Forlì, pittore Giuseppe Maria Galleppini Giustino di Gheradino da Forlì Guglielmo degli Organi Luigi Foscolo Lombardi Carlo Lucy Ludovico da Forlì, intagliatore (secolo XV) Maestro dei Baldraccani, pittore Maestro di Forlì, pittore Giuseppe Marchetti Melozzo da Forlì, pittore Francesco Menzocchi, pittore Pier Paolo Menzocchi, pittore Sebastiano Menzocchi, pittore Pietro Micheli Pietro Paolo Minoccio o Minocci, stuccatore, attivo verso la metà del Cinquecento Gian Francesco Modigliani Livio Modigliani, pittore Antonello Moroni Ettore Nadiani Giovanni Antonio Nessoli Pace di Maso del Bombace Pierino Giovanni dai Boccali, ceramista che lavorò prima a Forlì e poi si trasferì a Pesaro (fine del XIV secolo) Giuseppe Secondo Paganini, liutaio Luigi Paganini, liutaio Marco Palmezzano, pittore Filippo Pasquali Giovan Battista Rosetti, pittore Leucadio Solombrini Lodovico Vandi, pittore Giacomo Zampa, pittore
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Forli
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Scuola forlivese Nell'ambito delle arti figurative, con scuola forlivese si può indicare un gruppo di artisti, principalmente pittori, che era attivo nella città romagnola di Forlì dalla fine del Medioevo fino al Manierismo. A Forlì, in particolare, lavorò la coppia Melozzo da Forlì-Marco Palmezzano che pose l'accento su complesse, e in parte inedite, forme di prospettiva per ambientare le scene sacre, come la visione "da sott'in su". A proposito della scuola forlivese Antonio Paolucci scrisse: "A Forlì l'arte figurativa assumeva aspetti distinguibili rispetto a quelli pur simili e fraterni presenti nelle città vicine. Il responsabile della differenza, l'artista che ha dato alla Forlì del Rinascimento una sua specifica identità, è stato Marco Palmezzano". Pittura, scultura, architettura Nel tardo Medioevo Forlì godette di una posizione privilegiata tra lo snodo della via Emilia e quello delle strade che, attraverso Ferrara, andavano da Venezia al centro-Italia, in particolare a Roma, come dimostra il passaggio per Forlì di vari itinerari delle cosiddette vie Romee; inoltre fu vicina a centri innovativi quali Rimini, Urbino e la stessa Ferrara, e il suo territorio confinava anche con quello di Firenze tramite la vicinissima Romagna fiorentina. Elementi propulsori della vita artistica furono i vescovi e i potenti abati di San Mercuriale. Nel XIV secolo tutta la Romagna fu influenzata dal passaggio di Giotto a Rimini, generando un folto gruppo di seguaci che diffusero presto le novità del maestro fiorentino. A Forlì, dopo l'esperienza bizantina del Maestro di Forlì, si trovano nella seconda metà del Trecento pittori interessanti e vivaci quali Guglielmo da Forlì, che Adriana Arfelli lo definisce come il "mitico fondatore della scuola pittorica forlivese", Baldassarre Carrari il Vecchio, Augustinus, Giovanni di Mastro Pedrino. Nella seconda metà del Quattrocento alcuni pittori forlivesi portarono in patria precocemente le novità elaborate a Padova dalla scuola dello Squarcione e dagli artisti attivi nella cappella Ovetari, tra cui il giovane Andrea Mantegna. In particolare Ansuino da Forlì fu quello che seppe assorbire queste novità (lavorando anche a fianco di tali maestri) e proporle in patria, riscuotendo un successo che testimonia l'apertura della comunità all'umanesimo. Ansuino fu il maestro diretto di Melozzo, un artista eccezionale che seppe cogliere il meglio di quello che veniva prodotto nell'Italia nord-orientale, tra Mantegna, Piero della Francesca e Giovanni Bellini. A lui si attribuisce lo sviluppo pieno della prospettiva con veduta dal basso, di cui diede eccellente prova nella Sagrestia di San Marco a Loreto, o nei frammentari affreschi per la basilica dei Santi Apostoli a Roma. La sua memoria è tuttavia penalizzata dalla sfortuna che, nei secoli, ha distrutto o pesantemente compromesso circa il 90% della sua produzione. Raccolse la sua eredità, ormai alle soglie del XVI secolo, Marco Palmezzano, artista che guardò anche alle novità provenienti da Firenze (in particolare dagli allievi di Verrocchio), dal Veneto e dall'Umbria (Perugino, Pinturicchio). Fu autore di grandi pale spesso affollate di personaggi e ricche di dettagli preziosi, con il ricordo degli arditi artifici prospettici imparati dal suo maestro. Tuttavia, come molti grandi maestri attivi tra Quattro e Cinquecento, non scavalcò mai il confine della "Maniera Moderna": ignorò Leonardo, Raffaello e gli altri grandi innovatori della sua epoca, restando sempre fedele al disegno graficamente curato, all'atmosfera asciutta e alla colorazione convenzionale, tutti elementi tipici dell'appena trascorso XV secolo. In quegli stessi anni lavorarono in città anche alcuni maestri minori, come Baldassarre Carrari e il cosiddetto Maestro dei Baldraccani. Della generazione seguente fecero parte Francesco Menzocchi e Livio Agresti, artisti ormai pienamente inseriti nella corrente del manierismo di ispirazione tosco-romana. In quel periodo la scuola ricevette un forte impulso da due successivi vescovi di Forlì, Pier Giovanni Aleotti (1551-1563) e Antonio Giannotti (1563-1578), che con azioni incisive portarono la città a essere "citata come esempio di ortodossia e di zelo religioso". In particolare, negli anni sessanta del secolo, il patetismo nell'arte forlivese sembra sostanzialmente "in anticipo sui fatti romani degli anni settanta". Gian Francesco Modigliani, nella seconda metà del Cinquecento, fu un artista che apprese la lezione del Tintoretto con una pennellata sciolta e composizioni ardite. Tra gli architetti del Rinascimento si ricorda Pace di Maso del Bombace. Nei secoli successivi non vi fu continuità, incontrando nella scena artistica alti e bassi. Tra gli epigoni del XVIII secolo un certo interesse è legato alla figura di Antonio Belloni. Tuttavia non si può ignorare la presenza in città, per circa vent'anni, del bolognese Carlo Cignani, che vi lasciò il proprio capolavoro nella cupola dell'Assunta in Duomo. Quanto al periodo tra XIX e XX secolo, "a Forlì si può parlare di una locale scuola che, dopo Antonello Moroni, vanta i nomi di Pietro Angelini, Giovanni Marchini e Carlo Stanghellini prima di giungere alla generosità creativa di Maceo Casadei e di suoi emuli come Gino Mandolesi e Gianna Nardi Spada". Negli anni venti del Novecento Forlì fu il centro del Cenacolo Artistico Forlivese. Argenteria Non mancano anche celebri argentieri, come quel Giovanni Giardini, vissuto tra XVII e XVIII secolo, che fu argentiere pontificio a Roma. A lui si deve, ad esempio, un bel Reliquario di san Mercuriale (1719 - 1720). Ceramica Dal Medioevo a Forlì esiste una tradizione di produzione di oggetti in ceramica e sculture in terracotta, con artisti come Leucadio Solombrini. Tale tradizione risulta ancora attiva negli anni venti del Novecento, con la Ca' de fug di Giulio Vio e con la Flamigli Ceramiche di Luigi Flamigni. Lavorazione del legno, intaglio, liuteria Anche la lavorazione del legno, e in particolare l'intaglio, ebbe a Forlì una certa fioritura. Né vi mancarono i maestri liutai. Artisti Tra gli artisti riconducibili a questo ambito, si ricordano: Livio Agresti, pittore Ansuino da Forlì, pittore Augustinus, pittore Armando Barbieri, liutaio Licinio Barzanti, pittore Antonio Belloni Francesco Brunelli, intagliatore (secolo XVII) Baldassarre Carrari il Giovane, pittore Baldassarre Carrari il Vecchio, pittore Maceo Casadei Leone Cobelli Augusto Antonio Dirani Antonio Fanzaresi Giovanni Giardini, argentiere Giovanni di Mastro Pedrino Girolamo da Forlì, pittore Giuseppe Maria Galleppini Giustino di Gheradino da Forlì Guglielmo degli Organi Luigi Foscolo Lombardi Carlo Lucy Ludovico da Forlì, intagliatore (secolo XV) Maestro dei Baldraccani, pittore Maestro di Forlì, pittore Giuseppe Marchetti Melozzo da Forlì, pittore Francesco Menzocchi, pittore Pier Paolo Menzocchi, pittore Sebastiano Menzocchi, pittore Pietro Micheli Pietro Paolo Minoccio o Minocci, stuccatore, attivo verso la metà del Cinquecento Gian Francesco Modigliani Livio Modigliani, pittore Antonello Moroni Ettore Nadiani Giovanni Antonio Nessoli Pace di Maso del Bombace Pierino Giovanni dai Boccali, ceramista che lavorò prima a Forlì e poi si trasferì a Pesaro (fine del XIV secolo) Giuseppe Secondo Paganini, liutaio Luigi Paganini, liutaio Marco Palmezzano, pittore Filippo Pasquali Giovan Battista Rosetti, pittore Leucadio Solombrini Lodovico Vandi, pittore Giacomo Zampa, pittore
Alla scoperta del Rinascimento forlivese Una passeggiata in centro può essere un’ottima occasione per riscoprire il Rinascimento forlivese, anche senza dove entrare nei musei! Il percorso si svolge quasi tutto a piedi all’interno delle mura cittadine. Per raggiungere la frazione il Santuario di Fornò, si può prendere l’autobus 126 fino alla frazione Carpinello, e poi camminare per un chilometro circa. I primi passi nel Rinascimento forlivese Il percorso comincia nei pressi della Rocca Ravaldino. Questa fortificazione fu iniziata nel 1471, ed è una delle ultime costruite con questa particolare forma, con robusti torrioni e alte mura: l’evoluzione delle armi da fuoco e l’introduzione di cannoni e bombarde, rese questo tipo di rocche inutili in breve tempo e sostituite con le più efficaci fortificazioni alla moderna. Fu proprio qui che Alessandro Borgia catturò Caterina Sforza durante l’assedio del 1500. Percorrendo via Regnoli si raggiunge la tappa successiva: la Basilica di San Pellegrino Laziosi. La chiesa ospita il Monumento funebre di Luffo Numai, importante politico, letterato e amante delle arti nella Forlì di fine Quattrocento. Scolpita nel 1502 da Tommaso Fiamberti e Giovanni Ricci, artisti di origine ticinese, richiama i modelli che andavano di moda a Firenze, sia nella struttura, sia nel motivo dei putti che reggono la targa commemorativa. I due scultori, tuttavia, abbondano nelle decorazioni, e le figure sono ingenue e caricaturali, con arti sproporzionati e scarsa prospettiva, uno stile che si avvicina molto a quello nell’area tra Ticino e Lombardia. Dalla basilica si prende via Miller fino a giungere ai Musei di San Domenico. Proprio a fianco dei musei si trova l’Oratorio di San Sebastiano, oggi sede espositiva. Questa chiesa è quanto di meglio possa offrire l’architettura rinascimentale forlivese, ed è un ottimo esempio di chiesa a pianta centrale, tra le molte che furono costruite tra Quattro e Cinquecento. Disegnata da Pace di Maso del Bombace, architetto forlivese, si richiama all’architettura del Brunelleschi (vedi la Cappella Pazzi) e dell’Alberti e per questo motivo alcuni studiosi hanno teorizzato una collaborazione di Melozzo da Forlì nella sua progettazione. Il Palmezzano e il Rinascimento forlivese Prendendo via Leone Cobelli si raggiunge la quarta tappe del percorso: la Cattedrale di Santa Croce. Il Duomo forlivese è famoso per la Cappella della Madonna del Fuoco, che al suo interno ospita una xilografia del 1432, tra le più antiche del mondo. Ciò che interessa a noi, però, è la Cappella del Santissimo Sacramento, altra opera di Pace di Maso del Bombace. Anche qui i richiami al Brunelleschi sono molti, anche se la pesante decorazione aggiunta nel Seicento impedisce una buona lettura della cappella. Lungo la navata sinistra, incontriamo la prima delle opere di Marco Palmezzano nel corso della passeggiata: si tratta del San Rocco all’interno della Cappella di Sant’Anna. Dal duomo, si imbocca via Solferino e poi via Episcopio vecchio, per raggiungere la quinta tappa del percorso: la chiesa di San Biagio. L’aspetto moderno si deve ad uno degli eventi più dolorosi della storia forlivese: il 10 dicembre 1944, un aereo tedesco sganciò un potentissima bomba, disintegrandola. Si perse così per sempre la Cappella Feo, dipinta da Melozzo da Forlì e Marco Palmezzano, una delle più famose opere del Rinascimento forlivese e del nord Italia. Ci rimangono solo le foto in bianco e nero degli Alinari, fatte durante la grande mostra su Melozzo negli anni ‘30 (una situazione simile agli affreschi del Mantegna nella Cappella Olivetani a Padova). Si salvarono solo pochissime opere: una Madonna in Trono con bambino e Santi di Marco Palmezzano, che si trova sul primo altare a sinistra, un’acquasantiera quattrocentesca con una rana, oltre al Monumento funebre di Barbara Manfredi, oggi nell’Abbazia di San Mercuriale. Capolavori di scultura Per raggiungere la sesta tappa, conviene percorrere via Paradiso, poi via Orsini, e poi risalire lungo viale Mazzini, arrivando così alla Chiesa del Carmine. Sulla spoglia facciata della chiesa fa bella vista di sé il portale marmoreo, opera di Marino di Marco Cedrino del 1465 e che un tempo fungeva da portale monumentale del Duomo. Lo stile scultoreo del buon Marino testimonia bene quell’arte provinciale che cercava di unire le nuovi indicazioni rinascimentali provenienti dai centri più innovativi, con la tradizionale arte di gusto gotico. Il risultato è quindi una scultura ibrida, con ampio uso di decorazioni rinascimentali quali festoni o cornici a palmette, a figure che ancora mostrano le sinuosità e allungamenti gotici. Proseguendo lungo viale Mazzini si raggiunge la settima e ultima tappa cittadina: Piazza Saffi. Qui si trova Palazzo Albertini, costruito tra Quattro e Cinquecento, riconoscibile per il bel loggiato che lo contraddistingue. Di grande importanza è l’Abbazia di San Mercuriale, dove si conservano le più belle opere del Rinascimento forlivese. Nella navata destra è il Monumento funebre di Barbara Manfredi, scolpita nel 1466 dal fiorentino Francesco di Simone Ferrucci, il cui stile è molto vicino a quello morbido e dolce di Desiderio da Settignano. Qualche metro più avanti, si trova una Madonna col Bambino di Marco Palmezzano. Il vero capolavoro dell’abbazia è la Cappella dei Ferri, lungo la navata sinistra. Costruita dal 1515 da Giacomo Bezzi, decorata con sculture in pietra d’Istria dal veneziano Jacopo Veneto, al suo interno ospita uno dei maggiori dipinti del Palmezzano, la Pala dell’Immacolata. Il Rinascimento in campagna Il percorso cittadino termina qui, ma volendo si può fare una breve escursione in campagna, a visitare il Santuario di Santa Maria delle Grazie di Fornò. Dalla stazione degli autobus si prende il bus 126, scendendo alla frazione Carpinello. Da qui il santuario dista circa un chilometro da fare a piedi per strade di campagna. Il Santuario ha la caratteristica forma di rotonda. Fondato a metà Quattrocento, il suo attuale aspetto risale al 1500 circa, quando Maso di Pace del Bombace (attribuzione incerta) la ristrutturò. Alla decorazione scultorea lavorò Agostino di Duccio, artista impegnato in quegli stessi anni presso il Tempio Malatestiano di Rimini, il quale compì la Madonna col bambino visibile nella nicchia sopra l’ingresso, il Monumento funebre di Pietro da Durazzo, fondatore del santuario, posto all’interno della chiesa, oltre al bassorilievo della Trinità. Tutte queste opere sono state realizzate nel 1455-60, per il santuario originario.
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Alla scoperta del Rinascimento forlivese Una passeggiata in centro può essere un’ottima occasione per riscoprire il Rinascimento forlivese, anche senza dove entrare nei musei! Il percorso si svolge quasi tutto a piedi all’interno delle mura cittadine. Per raggiungere la frazione il Santuario di Fornò, si può prendere l’autobus 126 fino alla frazione Carpinello, e poi camminare per un chilometro circa. I primi passi nel Rinascimento forlivese Il percorso comincia nei pressi della Rocca Ravaldino. Questa fortificazione fu iniziata nel 1471, ed è una delle ultime costruite con questa particolare forma, con robusti torrioni e alte mura: l’evoluzione delle armi da fuoco e l’introduzione di cannoni e bombarde, rese questo tipo di rocche inutili in breve tempo e sostituite con le più efficaci fortificazioni alla moderna. Fu proprio qui che Alessandro Borgia catturò Caterina Sforza durante l’assedio del 1500. Percorrendo via Regnoli si raggiunge la tappa successiva: la Basilica di San Pellegrino Laziosi. La chiesa ospita il Monumento funebre di Luffo Numai, importante politico, letterato e amante delle arti nella Forlì di fine Quattrocento. Scolpita nel 1502 da Tommaso Fiamberti e Giovanni Ricci, artisti di origine ticinese, richiama i modelli che andavano di moda a Firenze, sia nella struttura, sia nel motivo dei putti che reggono la targa commemorativa. I due scultori, tuttavia, abbondano nelle decorazioni, e le figure sono ingenue e caricaturali, con arti sproporzionati e scarsa prospettiva, uno stile che si avvicina molto a quello nell’area tra Ticino e Lombardia. Dalla basilica si prende via Miller fino a giungere ai Musei di San Domenico. Proprio a fianco dei musei si trova l’Oratorio di San Sebastiano, oggi sede espositiva. Questa chiesa è quanto di meglio possa offrire l’architettura rinascimentale forlivese, ed è un ottimo esempio di chiesa a pianta centrale, tra le molte che furono costruite tra Quattro e Cinquecento. Disegnata da Pace di Maso del Bombace, architetto forlivese, si richiama all’architettura del Brunelleschi (vedi la Cappella Pazzi) e dell’Alberti e per questo motivo alcuni studiosi hanno teorizzato una collaborazione di Melozzo da Forlì nella sua progettazione. Il Palmezzano e il Rinascimento forlivese Prendendo via Leone Cobelli si raggiunge la quarta tappe del percorso: la Cattedrale di Santa Croce. Il Duomo forlivese è famoso per la Cappella della Madonna del Fuoco, che al suo interno ospita una xilografia del 1432, tra le più antiche del mondo. Ciò che interessa a noi, però, è la Cappella del Santissimo Sacramento, altra opera di Pace di Maso del Bombace. Anche qui i richiami al Brunelleschi sono molti, anche se la pesante decorazione aggiunta nel Seicento impedisce una buona lettura della cappella. Lungo la navata sinistra, incontriamo la prima delle opere di Marco Palmezzano nel corso della passeggiata: si tratta del San Rocco all’interno della Cappella di Sant’Anna. Dal duomo, si imbocca via Solferino e poi via Episcopio vecchio, per raggiungere la quinta tappa del percorso: la chiesa di San Biagio. L’aspetto moderno si deve ad uno degli eventi più dolorosi della storia forlivese: il 10 dicembre 1944, un aereo tedesco sganciò un potentissima bomba, disintegrandola. Si perse così per sempre la Cappella Feo, dipinta da Melozzo da Forlì e Marco Palmezzano, una delle più famose opere del Rinascimento forlivese e del nord Italia. Ci rimangono solo le foto in bianco e nero degli Alinari, fatte durante la grande mostra su Melozzo negli anni ‘30 (una situazione simile agli affreschi del Mantegna nella Cappella Olivetani a Padova). Si salvarono solo pochissime opere: una Madonna in Trono con bambino e Santi di Marco Palmezzano, che si trova sul primo altare a sinistra, un’acquasantiera quattrocentesca con una rana, oltre al Monumento funebre di Barbara Manfredi, oggi nell’Abbazia di San Mercuriale. Capolavori di scultura Per raggiungere la sesta tappa, conviene percorrere via Paradiso, poi via Orsini, e poi risalire lungo viale Mazzini, arrivando così alla Chiesa del Carmine. Sulla spoglia facciata della chiesa fa bella vista di sé il portale marmoreo, opera di Marino di Marco Cedrino del 1465 e che un tempo fungeva da portale monumentale del Duomo. Lo stile scultoreo del buon Marino testimonia bene quell’arte provinciale che cercava di unire le nuovi indicazioni rinascimentali provenienti dai centri più innovativi, con la tradizionale arte di gusto gotico. Il risultato è quindi una scultura ibrida, con ampio uso di decorazioni rinascimentali quali festoni o cornici a palmette, a figure che ancora mostrano le sinuosità e allungamenti gotici. Proseguendo lungo viale Mazzini si raggiunge la settima e ultima tappa cittadina: Piazza Saffi. Qui si trova Palazzo Albertini, costruito tra Quattro e Cinquecento, riconoscibile per il bel loggiato che lo contraddistingue. Di grande importanza è l’Abbazia di San Mercuriale, dove si conservano le più belle opere del Rinascimento forlivese. Nella navata destra è il Monumento funebre di Barbara Manfredi, scolpita nel 1466 dal fiorentino Francesco di Simone Ferrucci, il cui stile è molto vicino a quello morbido e dolce di Desiderio da Settignano. Qualche metro più avanti, si trova una Madonna col Bambino di Marco Palmezzano. Il vero capolavoro dell’abbazia è la Cappella dei Ferri, lungo la navata sinistra. Costruita dal 1515 da Giacomo Bezzi, decorata con sculture in pietra d’Istria dal veneziano Jacopo Veneto, al suo interno ospita uno dei maggiori dipinti del Palmezzano, la Pala dell’Immacolata. Il Rinascimento in campagna Il percorso cittadino termina qui, ma volendo si può fare una breve escursione in campagna, a visitare il Santuario di Santa Maria delle Grazie di Fornò. Dalla stazione degli autobus si prende il bus 126, scendendo alla frazione Carpinello. Da qui il santuario dista circa un chilometro da fare a piedi per strade di campagna. Il Santuario ha la caratteristica forma di rotonda. Fondato a metà Quattrocento, il suo attuale aspetto risale al 1500 circa, quando Maso di Pace del Bombace (attribuzione incerta) la ristrutturò. Alla decorazione scultorea lavorò Agostino di Duccio, artista impegnato in quegli stessi anni presso il Tempio Malatestiano di Rimini, il quale compì la Madonna col bambino visibile nella nicchia sopra l’ingresso, il Monumento funebre di Pietro da Durazzo, fondatore del santuario, posto all’interno della chiesa, oltre al bassorilievo della Trinità. Tutte queste opere sono state realizzate nel 1455-60, per il santuario originario.

Macchiaioli

I Macchiaioli sono stati un gruppo di artisti attivi principalmente in Toscana nella seconda metà dell'800. Questo periodo durò dal 1856 al 1867. Quello dei Macchiaioli è stato il movimento artistico italiano più impegnato e costruttivo dell’Ottocento[1]. Formatosi a Firenze a partire dal 1855, nasce come reazione all’inerzia formale delle Accademie tenendosi anche in rapporto con i fermenti ideologici del Risorgimento nazionale. Il movimento macchiaiolo afferma che "la teoria della macchia’’ fa sì che la visione delle forme sia creata dalla luce attraverso macchie di colore, distinte, accostate e sovrapposte ad altre. La teoria della macchia precede cronologicamente le enunciazioni teoriche degli impressionisti francesi e, per alcuni aspetti, vi si avvicina. La teoria sostiene che l'immagine del vero è costituita da un contrasto di macchie di colore e di chiaroscuro, che si possono rilevare tramite una tecnica chiamata dello specchio nero, mediante cioè uno specchio annerito con il fumo che permette di esaltare i contrasti chiaroscurali[5]. Il termine Macchiaioli fu utilizzato dalla Gazzetta del Popolo per la prima volta nel 1862 in occasione di un'esposizione fiorentina. In realtà l'espressione fu coniata dal giornalista in senso denigratorio, ma i pittori oggetto della definizione decisero da allora in poi di adottare tale termine come identificativo del loro gruppo.
Silvestro Lega (Modigliana, 8 dicembre 1826 – Firenze, 21 settembre 1895) è stato un pittore italiano. È considerato, insieme a Giovanni Fattori e a Telemaco Signorini, fra i maggiori esponenti del movimento dei macchiaioli. Biografia Modifica Formazione Modifica Silvestro Lega nacque l'8 dicembre 1826 a Modigliana, paese della Romagna toscana nell'Appennino forlivese, da Antonio e Giacoma Mancini. Antonio sposò Giacoma in seconde nozze il 18 giugno 1820, essendo la prima moglie Domenica Nediani morta di parto nel 1812, dopo aver dato alla luce nove figli in dodici anni. Nonostante il trapasso della prima consorte, Antonio continuò ad intrattenere ottimi rapporti con la nobile ed abbiente famiglia di lei, consacrando così l'affermazione sociale propria e della famiglia, che nel 1818 risultava intestataria di vari mulini e particolarmente attiva nell'artigianato tessile e nell'agricoltura. Più modesta era invece l'estrazione sociale di Giacoma Mancini, già serva in casa Lega. Era una donna umile ma di grande intelligenza, tanto che lo stesso figlio l'avrebbe ricordata in questi termini: «Mia madre era amantissima dell'istruzione e della buona educazione della propria famiglia. Fino dai primi anni fummo collocati sotto la tutela degli Scolopi».[1] Ci sono rimaste scarsissime notizie in merito alla sua fanciullezza, trascorsa sicuramente in seno alla numerosa famiglia. Nel 1838 si iscrisse al collegio dei Padri Scolopi di Modigliana, studiando svogliatamente e senza una piena adesione: fu proprio in quegli anni, tuttavia, che esplose precoce e irrefrenabile la sua vocazione pittorica[1]. Lo stesso Lega avrebbe poi affermato: «Scarabocchiando sempre nei muri, o scartafacci, mi si dava a credere che io avessi genio per la Pittura. Arrivai a un punto che ci credetti sul serio e costrinsi mio padre a strascinarmi a Firenze. Ottenni questo bel beneficio» (Silvestro Lega[1]) Compiuti i diciassette anni si trasferì a Firenze nel 1843 attratto dalla prospettiva di studiare in una città di grande interesse artistico e di sottrarsi a un ambiente familiare che soffriva pesanti ristrettezze economiche. Si insediò nella casa sul Lungarno del fratellastro Giovanni, mediocre copista dei maestri antichi che, in virtù del suo status di «pittore ufficiale», nel 1845 arrivò persino ad essere menzionato nella Nuova guida storico-artistica di Firenze, al fianco di nomi certamente più illustri, come quelli di Carlo Ademollo, Pietro Benvenuti, Giuseppe Bezzuoli, Tommaso Gazzarrini, Adolf von Stürler e Luigi Mussini[1]. Iscrittosi all'Accademia di Belle Arti di Firenze il 30 maggio 1845, il Lega vi compì un brillante ciclo di studi, nonostante gli venisse offerto un insegnamento non eccellente (Benedetto Servolini e Gazzarrini). Arrivò egli stesso a riconoscere che non si accostava più all'arte con spirito da dilettante, bensì con la consapevolezza di conoscere le regole necessarie per applicarla: «sebbene ragazzo capii subito, che dallo scarabocchiare sui muri a disegnare un profilo era molto differente». Dopo questo salto di qualità arrivò tuttavia a ritenere la tradizione accademica del tempo sterile e mortificante: dopo aver maturato questo pensiero arrivò ad abbandonare i corsi dell'Accademia e, contestualmente, a lasciare la casa del fratello, con il quale non aveva mai d'altronde mantenuto buoni rapporti[1]. Esordi Fu così che nel 1845 o forse nel 1846 passò alla scuola privata del purista Luigi Mussini, dove eseguì, come saggio di secondo anno, La musica sacra: fu una tela particolarmente apprezzata, specialmente da coloro che volevano recuperare la pittura quattrocentesca e del primo Cinquecento. Nel frattempo il fermento rivoluzionario che andava crescendo in Toscana dopo l'ascesa al soglio pontificio di Pio IX, colse anche il Lega che, con entusiasmo e allegria giovanili, si arruolò volontario. Il suo coinvolgimento nelle vicende belliche risorgimentali segnò una battuta d'arresto della sua carriera che comunque riprese a coltivare con assiduità dopo il ritorno dal fronte. Dopo il «generoso e poetico movimento del '48», fallito «nei vortici sollevati dalle sette e dagli arruffapopoli audaci e ambiziosi», Lega passò nello studio di Antonio Ciseri, insegnante oggetto della sua più grande venerazione («questo nuovo maestro m'inebriò»). Finite le campagne militari iniziò anche a frequentare i turbolenti incontri del caffè Michelangelo, noto ritrovo di artisti e patrioti. Ben presto tuttavia si allontanò dal cenacolo degli artisti che lì si riuniva, ritenendo inappropriati sia il loro atteggiamento goliardico che le loro rivendicazioni di libertà creative, ritenute dall'artista eccessivamente astratte e inutili[1]. A questi anni risale il primo dipinto significativo di Lega, L'incredulità di san Tommaso. La frizione con il «movimento della macchia» del caffè Michelangelo gli procurò un grande disagio creativo, al punto che affermò: «Allora praticavo artisti che viaggiavano; vedevo in loro più idee nuove, di quelle che non avevo io. Mi pareva d'esser vecchio senza anni». Complice la lontananza del Ciseri e l'irrisolto confronto con i macchiaioli, Lega si trasferì a Modigliana, dove operò in completa solitudine eseguendo «molti ritratti» che «sebbene non primi mi aprirono la mente, mi fecero più sicuro delle idee nuove». A questi anni risalgono il Ritratto del fratello Ettore fanciullo e la commissione di quattro lunette per il sacello della chiesa della Madonna del Cantone, sempre a Modigliana[1]. Maturità Modifica Attivo nella seconda guerra d'indipendenza nell'aprile del 1859 in qualità di artigliere, dopo esser rientrato a Firenze, iniziò a mostrarsi più amichevole verso i giovani colleghi del caffè Michelangelo, e prese persino a partecipare ai loro festosi incontri. Questa ritrovata disinvoltura corrispose a un nuovo salto di qualità nella sua arte. Testimonianza di questo nuovo vigore pittorico sono le quattro tele raffiguranti episodi militari del Risorgimento che Lega eseguì per il concorso bandito dal Ricasoli sulla fine del 1859. Il primo quadro gli fruttò una cospicua somma in denaro, pertanto poté concedersi una nuova sistemazione in via Santa Caterina, in un quartiere dove vivevano numerosi altri artisti, come Giovanni Fattori. Sono tuttavia gli altri tre quadri della serie, nella fattispecie il Ritorno di bersaglieri italiani da una ricognizione, la perduta Ricognizione di cacciatori nelle Alpi e Un'imboscata di bersaglieri italiani in Lombardia, ad essere i più esemplificativi dell'indipendenza creativa appena conquistata, segno di un grande equilibrio compositivo, «distacco assoluto dalle diverse scuole avute». Riferendosi all'Imboscata, egli stesso avrebbe riconosciuto che «lì ero io; che cominciava a fare come sentiva, come voleva e come sapeva»[1]. Questo fu uno dei periodi più felici per l'artista, che proprio in quegli anni aveva scoperto le bellezze della pittura en plein air, che attese con la massima diligenza. Questa ritrovata serenità fu dovuta anche a motivi d'ordine personale: fu infatti proprio durante una sessione di pittura all'aperto, presso «gli orti e le case coloniche di quella campagna umile e modesta che fiancheggiava l'Arno, detta Piagentina», che conobbe la famiglia Batelli, con la quale stabilì un'intesa immediata. I Batelli furono ben felici di accoglierlo nella loro dimora, constatate le sue progressive incertezze economiche. Lega si invaghì perdutamente di Virginia, donna ventiseienne tornata ad abitare con i genitori dopo la sfortunata vicenda matrimoniale con un tal Giuseppe Puccinelli. La simpatia con Virginia si trasformò ben presto in intimità e i due intrecciarono una relazione sentimentale che non mancò di essere approvata dai vari esponenti della famiglia Batelli[1]. Dopo il fidanzamento con Virginia, Lega lavorò alacremente, animato da uno straordinario vigore creativo e produsse una notevole mole di dipinti. Speciale menzione meritano L'elemosina, La nonna, L'indovina, La cucitrice, La lettrice, Gli sposi novelli, La curiosità e, soprattutto, Il canto dello stornello, La visita, e Il pergolato. La quiete domestica tuttavia si frantumò a partire dagli anni trenta, allorché lo colpirono i primi lutti famigliari: la morte del fratello Dante e, soprattutto, dell'amata Virginia, stroncata dalla tisi nel giugno del 1870. Da allora in poi, benché seguitasse a lavorare alacremente, vincendo persino la medaglia d'argento all'Esposizione nazionale di Parma del 1870, fu funestato da una profonda prostrazione. Fu l'inizio di una grave crisi, resa ancora più penetrante dopo le critiche che l'amico Telemaco Signorini, che toccò il suo culmine con l'insorgere di una grave malattia agli occhi che a lungo andare gli avrebbe impedito di dipingere[1]. Riuscì a lasciarsi dietro questa profonda crisi interiore e a ritrovare la serenità, anche grazie alle affettuose premure degli amici (in particolare Martelli e Matilde Gioli Bartolommei). Dopo aver finalmente voltato pagina ritornò ad essere particolarmente attivo, sia dal punto di vista sociale che artistico. Espose, infatti, nello studio Gioli di via Orti Oricellari (1879) e all'Esposizione internazionale della Società Donatello (primavera del 1880). Si occupò inoltre di recuperare vecchie amicizie e di intrecciarne di nuove: speciale menzione merita il sodalizio con il pittore svizzero Arnold Böcklin, da lui omaggiato con un ritratto. Sempre in questi anni si recò assiduamente a Gabbro dove «ebbe la fortuna di conoscere il conte Roselmini Odoardo che con sua signora abitava, quasi costantemente, la bella villa di Poggiopiano; e fu questa occasione che gli permise, negli ultimi anni di fermarsi a lungo in questo paese, bellissimo e forte». La proprietaria di questa villa, Clementina Fiorini, era una donna energica e operosa che apprezzava molto l'attitudine «randagia e brontolona» di Lega. Potendo contare su quest'amicizia, Lega aveva la sicurezza di non essere dimenticato né solo, trascorse pertanto un'anzianità serena e dignitosa. Morì il 21 settembre 1895 nell'ospedale di San Giovanni di Dio a Firenze: Stile Pur risentendo inizialmente della maniera dei suoi maestri, quando si unì al gruppo dei Macchiaioli si era già emancipato dalla disciplina accademica e dai soggetti storici di stampo neoclassico da essa privilegiati, e iniziò pertanto a produrre opere caratterizzate da un disegno nitido e preciso, un apparato cromatico limpido e puro e da composizioni geometricamente chiare e definite. L'evoluzione dello stile artistico è caratterizzata da uno sviluppo notevolmente lento. Inizialmente si inserì nella tradizione purista, occupandosi prevalentemente di «osservare il vero con più semplicità e con un maggior senso della realtà, apprendendo non solo a esercitarsi in una tecnica disegnativa sicura e sciolta, ma anche a organizzare il quadro in tutte quelle componenti tramite le quali il soggetto assume la verità di una narrazione». Dopo l'esperienza militare del 1848 iniziò a prediligere soggetti tratti dalla vita militare: la sua conversione alla pittura macchiaiola avverrà solo nel 1861, quando si orientò verso la ricerca di uno stile di 'impressione' basato sull'impiego di macchie di colore e di volumi definiti con il contrasto tra luci e ombre. Si distinse dagli altri macchiaioli per la sua maniera pacata, così detta perché pervasa da un sentimento soave e tranquillo e da una poetica di sereni sentimenti quotidiani. Molti dei quadri di Lega, infatti, si occupano di descrivere con un'ingenuità primitiva e delicata e con grande lirismo poetico l'intimità di situazioni quotidiane generalmente ritenute insignificanti (le contrade suburbane di Firenze immerse dal sole, un interno domestico ...). Ed è proprio impegnandosi nei temi di soggetto quotidiano che Lega ci traduce in immagini i travagli sofferti nell'Ottocento dall'Italia, paese ancora sostanzialmente rurale che si apprestava timorosamente ad accogliere i fermenti dell'industrializzazione[2]. A questa fase pacata, in cui il mondo è visto ottimisticamente, segue, specchio delle difficoltà della sua esistenza, una fase concitata, più veemente e drammatica, dove «la pennellata si frange, si strappa, diventa sempre più febbrile e fremente, così da sembrare a volte malcerta e tremante [...] i contorni grafici si sfrangono; la materia cromatica straripa» (Mario Tinti)[3]. Generalmente, questa fase artistica leghiana è contraddistinta da «contrasti più accentuati di luce e ombra, presentazione più rapida e sintetica delle immagini, espressione più diretta e immediata di stati d'animo».
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Modigliana
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Silvestro Lega (Modigliana, 8 dicembre 1826 – Firenze, 21 settembre 1895) è stato un pittore italiano. È considerato, insieme a Giovanni Fattori e a Telemaco Signorini, fra i maggiori esponenti del movimento dei macchiaioli. Biografia Modifica Formazione Modifica Silvestro Lega nacque l'8 dicembre 1826 a Modigliana, paese della Romagna toscana nell'Appennino forlivese, da Antonio e Giacoma Mancini. Antonio sposò Giacoma in seconde nozze il 18 giugno 1820, essendo la prima moglie Domenica Nediani morta di parto nel 1812, dopo aver dato alla luce nove figli in dodici anni. Nonostante il trapasso della prima consorte, Antonio continuò ad intrattenere ottimi rapporti con la nobile ed abbiente famiglia di lei, consacrando così l'affermazione sociale propria e della famiglia, che nel 1818 risultava intestataria di vari mulini e particolarmente attiva nell'artigianato tessile e nell'agricoltura. Più modesta era invece l'estrazione sociale di Giacoma Mancini, già serva in casa Lega. Era una donna umile ma di grande intelligenza, tanto che lo stesso figlio l'avrebbe ricordata in questi termini: «Mia madre era amantissima dell'istruzione e della buona educazione della propria famiglia. Fino dai primi anni fummo collocati sotto la tutela degli Scolopi».[1] Ci sono rimaste scarsissime notizie in merito alla sua fanciullezza, trascorsa sicuramente in seno alla numerosa famiglia. Nel 1838 si iscrisse al collegio dei Padri Scolopi di Modigliana, studiando svogliatamente e senza una piena adesione: fu proprio in quegli anni, tuttavia, che esplose precoce e irrefrenabile la sua vocazione pittorica[1]. Lo stesso Lega avrebbe poi affermato: «Scarabocchiando sempre nei muri, o scartafacci, mi si dava a credere che io avessi genio per la Pittura. Arrivai a un punto che ci credetti sul serio e costrinsi mio padre a strascinarmi a Firenze. Ottenni questo bel beneficio» (Silvestro Lega[1]) Compiuti i diciassette anni si trasferì a Firenze nel 1843 attratto dalla prospettiva di studiare in una città di grande interesse artistico e di sottrarsi a un ambiente familiare che soffriva pesanti ristrettezze economiche. Si insediò nella casa sul Lungarno del fratellastro Giovanni, mediocre copista dei maestri antichi che, in virtù del suo status di «pittore ufficiale», nel 1845 arrivò persino ad essere menzionato nella Nuova guida storico-artistica di Firenze, al fianco di nomi certamente più illustri, come quelli di Carlo Ademollo, Pietro Benvenuti, Giuseppe Bezzuoli, Tommaso Gazzarrini, Adolf von Stürler e Luigi Mussini[1]. Iscrittosi all'Accademia di Belle Arti di Firenze il 30 maggio 1845, il Lega vi compì un brillante ciclo di studi, nonostante gli venisse offerto un insegnamento non eccellente (Benedetto Servolini e Gazzarrini). Arrivò egli stesso a riconoscere che non si accostava più all'arte con spirito da dilettante, bensì con la consapevolezza di conoscere le regole necessarie per applicarla: «sebbene ragazzo capii subito, che dallo scarabocchiare sui muri a disegnare un profilo era molto differente». Dopo questo salto di qualità arrivò tuttavia a ritenere la tradizione accademica del tempo sterile e mortificante: dopo aver maturato questo pensiero arrivò ad abbandonare i corsi dell'Accademia e, contestualmente, a lasciare la casa del fratello, con il quale non aveva mai d'altronde mantenuto buoni rapporti[1]. Esordi Fu così che nel 1845 o forse nel 1846 passò alla scuola privata del purista Luigi Mussini, dove eseguì, come saggio di secondo anno, La musica sacra: fu una tela particolarmente apprezzata, specialmente da coloro che volevano recuperare la pittura quattrocentesca e del primo Cinquecento. Nel frattempo il fermento rivoluzionario che andava crescendo in Toscana dopo l'ascesa al soglio pontificio di Pio IX, colse anche il Lega che, con entusiasmo e allegria giovanili, si arruolò volontario. Il suo coinvolgimento nelle vicende belliche risorgimentali segnò una battuta d'arresto della sua carriera che comunque riprese a coltivare con assiduità dopo il ritorno dal fronte. Dopo il «generoso e poetico movimento del '48», fallito «nei vortici sollevati dalle sette e dagli arruffapopoli audaci e ambiziosi», Lega passò nello studio di Antonio Ciseri, insegnante oggetto della sua più grande venerazione («questo nuovo maestro m'inebriò»). Finite le campagne militari iniziò anche a frequentare i turbolenti incontri del caffè Michelangelo, noto ritrovo di artisti e patrioti. Ben presto tuttavia si allontanò dal cenacolo degli artisti che lì si riuniva, ritenendo inappropriati sia il loro atteggiamento goliardico che le loro rivendicazioni di libertà creative, ritenute dall'artista eccessivamente astratte e inutili[1]. A questi anni risale il primo dipinto significativo di Lega, L'incredulità di san Tommaso. La frizione con il «movimento della macchia» del caffè Michelangelo gli procurò un grande disagio creativo, al punto che affermò: «Allora praticavo artisti che viaggiavano; vedevo in loro più idee nuove, di quelle che non avevo io. Mi pareva d'esser vecchio senza anni». Complice la lontananza del Ciseri e l'irrisolto confronto con i macchiaioli, Lega si trasferì a Modigliana, dove operò in completa solitudine eseguendo «molti ritratti» che «sebbene non primi mi aprirono la mente, mi fecero più sicuro delle idee nuove». A questi anni risalgono il Ritratto del fratello Ettore fanciullo e la commissione di quattro lunette per il sacello della chiesa della Madonna del Cantone, sempre a Modigliana[1]. Maturità Modifica Attivo nella seconda guerra d'indipendenza nell'aprile del 1859 in qualità di artigliere, dopo esser rientrato a Firenze, iniziò a mostrarsi più amichevole verso i giovani colleghi del caffè Michelangelo, e prese persino a partecipare ai loro festosi incontri. Questa ritrovata disinvoltura corrispose a un nuovo salto di qualità nella sua arte. Testimonianza di questo nuovo vigore pittorico sono le quattro tele raffiguranti episodi militari del Risorgimento che Lega eseguì per il concorso bandito dal Ricasoli sulla fine del 1859. Il primo quadro gli fruttò una cospicua somma in denaro, pertanto poté concedersi una nuova sistemazione in via Santa Caterina, in un quartiere dove vivevano numerosi altri artisti, come Giovanni Fattori. Sono tuttavia gli altri tre quadri della serie, nella fattispecie il Ritorno di bersaglieri italiani da una ricognizione, la perduta Ricognizione di cacciatori nelle Alpi e Un'imboscata di bersaglieri italiani in Lombardia, ad essere i più esemplificativi dell'indipendenza creativa appena conquistata, segno di un grande equilibrio compositivo, «distacco assoluto dalle diverse scuole avute». Riferendosi all'Imboscata, egli stesso avrebbe riconosciuto che «lì ero io; che cominciava a fare come sentiva, come voleva e come sapeva»[1]. Questo fu uno dei periodi più felici per l'artista, che proprio in quegli anni aveva scoperto le bellezze della pittura en plein air, che attese con la massima diligenza. Questa ritrovata serenità fu dovuta anche a motivi d'ordine personale: fu infatti proprio durante una sessione di pittura all'aperto, presso «gli orti e le case coloniche di quella campagna umile e modesta che fiancheggiava l'Arno, detta Piagentina», che conobbe la famiglia Batelli, con la quale stabilì un'intesa immediata. I Batelli furono ben felici di accoglierlo nella loro dimora, constatate le sue progressive incertezze economiche. Lega si invaghì perdutamente di Virginia, donna ventiseienne tornata ad abitare con i genitori dopo la sfortunata vicenda matrimoniale con un tal Giuseppe Puccinelli. La simpatia con Virginia si trasformò ben presto in intimità e i due intrecciarono una relazione sentimentale che non mancò di essere approvata dai vari esponenti della famiglia Batelli[1]. Dopo il fidanzamento con Virginia, Lega lavorò alacremente, animato da uno straordinario vigore creativo e produsse una notevole mole di dipinti. Speciale menzione meritano L'elemosina, La nonna, L'indovina, La cucitrice, La lettrice, Gli sposi novelli, La curiosità e, soprattutto, Il canto dello stornello, La visita, e Il pergolato. La quiete domestica tuttavia si frantumò a partire dagli anni trenta, allorché lo colpirono i primi lutti famigliari: la morte del fratello Dante e, soprattutto, dell'amata Virginia, stroncata dalla tisi nel giugno del 1870. Da allora in poi, benché seguitasse a lavorare alacremente, vincendo persino la medaglia d'argento all'Esposizione nazionale di Parma del 1870, fu funestato da una profonda prostrazione. Fu l'inizio di una grave crisi, resa ancora più penetrante dopo le critiche che l'amico Telemaco Signorini, che toccò il suo culmine con l'insorgere di una grave malattia agli occhi che a lungo andare gli avrebbe impedito di dipingere[1]. Riuscì a lasciarsi dietro questa profonda crisi interiore e a ritrovare la serenità, anche grazie alle affettuose premure degli amici (in particolare Martelli e Matilde Gioli Bartolommei). Dopo aver finalmente voltato pagina ritornò ad essere particolarmente attivo, sia dal punto di vista sociale che artistico. Espose, infatti, nello studio Gioli di via Orti Oricellari (1879) e all'Esposizione internazionale della Società Donatello (primavera del 1880). Si occupò inoltre di recuperare vecchie amicizie e di intrecciarne di nuove: speciale menzione merita il sodalizio con il pittore svizzero Arnold Böcklin, da lui omaggiato con un ritratto. Sempre in questi anni si recò assiduamente a Gabbro dove «ebbe la fortuna di conoscere il conte Roselmini Odoardo che con sua signora abitava, quasi costantemente, la bella villa di Poggiopiano; e fu questa occasione che gli permise, negli ultimi anni di fermarsi a lungo in questo paese, bellissimo e forte». La proprietaria di questa villa, Clementina Fiorini, era una donna energica e operosa che apprezzava molto l'attitudine «randagia e brontolona» di Lega. Potendo contare su quest'amicizia, Lega aveva la sicurezza di non essere dimenticato né solo, trascorse pertanto un'anzianità serena e dignitosa. Morì il 21 settembre 1895 nell'ospedale di San Giovanni di Dio a Firenze: Stile Pur risentendo inizialmente della maniera dei suoi maestri, quando si unì al gruppo dei Macchiaioli si era già emancipato dalla disciplina accademica e dai soggetti storici di stampo neoclassico da essa privilegiati, e iniziò pertanto a produrre opere caratterizzate da un disegno nitido e preciso, un apparato cromatico limpido e puro e da composizioni geometricamente chiare e definite. L'evoluzione dello stile artistico è caratterizzata da uno sviluppo notevolmente lento. Inizialmente si inserì nella tradizione purista, occupandosi prevalentemente di «osservare il vero con più semplicità e con un maggior senso della realtà, apprendendo non solo a esercitarsi in una tecnica disegnativa sicura e sciolta, ma anche a organizzare il quadro in tutte quelle componenti tramite le quali il soggetto assume la verità di una narrazione». Dopo l'esperienza militare del 1848 iniziò a prediligere soggetti tratti dalla vita militare: la sua conversione alla pittura macchiaiola avverrà solo nel 1861, quando si orientò verso la ricerca di uno stile di 'impressione' basato sull'impiego di macchie di colore e di volumi definiti con il contrasto tra luci e ombre. Si distinse dagli altri macchiaioli per la sua maniera pacata, così detta perché pervasa da un sentimento soave e tranquillo e da una poetica di sereni sentimenti quotidiani. Molti dei quadri di Lega, infatti, si occupano di descrivere con un'ingenuità primitiva e delicata e con grande lirismo poetico l'intimità di situazioni quotidiane generalmente ritenute insignificanti (le contrade suburbane di Firenze immerse dal sole, un interno domestico ...). Ed è proprio impegnandosi nei temi di soggetto quotidiano che Lega ci traduce in immagini i travagli sofferti nell'Ottocento dall'Italia, paese ancora sostanzialmente rurale che si apprestava timorosamente ad accogliere i fermenti dell'industrializzazione[2]. A questa fase pacata, in cui il mondo è visto ottimisticamente, segue, specchio delle difficoltà della sua esistenza, una fase concitata, più veemente e drammatica, dove «la pennellata si frange, si strappa, diventa sempre più febbrile e fremente, così da sembrare a volte malcerta e tremante [...] i contorni grafici si sfrangono; la materia cromatica straripa» (Mario Tinti)[3]. Generalmente, questa fase artistica leghiana è contraddistinta da «contrasti più accentuati di luce e ombra, presentazione più rapida e sintetica delle immagini, espressione più diretta e immediata di stati d'animo».

Ceramica

Spesso le grandi storie che fondano l’identità dei luoghi hanno origine nella morfologia del loro territorio. Così è successo a Faenza, patria della ceramica, un’arte radicata in questa città ma conosciuta in tutto il mondo, al punto che ancora oggi in Francia per indicare la maiolica si utilizza il termine faïence. La storia della ceramica faentina La nascita della ceramica a Faenza è legata all’abbondanza di terreno argilloso reperibile nelle vicinanze del fiume Lamone e alla sua posizione strategica: la città era infatti un luogo di passaggio sia per i viaggiatori che percorrevano la Via Emilia, sia per chi proveniva dalla Toscana. Le prime botteghe di ceramisti sorgono a Faenza a partire dai primi secoli dopo l’anno 1000, e ben presto la città diventa un centro ceramico di prima importanza. In questa fase medievale le ceramiche, definite arcaiche, presentano forme semplici e sono destinate all’uso domestico. La tecnica è destinata però a raffinarsi e ad adottare una notevole complessità cromatica e decorativa derivata anche da influenze bizantine, arabe e orientali. Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento le ceramiche di Faenza si ornano del tipico motivo a occhi di penna di pavone, ma rappresentano anche figure umane (le “belle donne”), scene bibliche e mitologiche. Con la successiva diffusione dei cosiddetti Bianchi di Faenza, nella seconda metà del XVI secolo, la città corona la sua fama di capitale della ceramica. Siamo qui all’apice della maestria tecnica, che i maestri maiolicari traducono in manufatti in cui alla sperimentazione del colore si sostituisce la semplicità del bianco.
L’arte della ceramica L'arte antica del plasmare le materie prime e decorarle è ancora un segno distintivo di tutta l’Emilia Romagna, dove la produzione di ceramica è una delle realtà industriali e artigianali più rilevanti. Cuore di quest’arte è Faenza, sulla Via Emilia nel cuore della Romagna. Basti pensare che il termine “faïence” è tuttora utilizzato in alcune regioni d’Europa come sinonimo di maiolica. Da secoli nelle sue botteghe si tramandano i segreti delle forme e degli smalti e si perpetua lo spirito e la creatività con produzioni a marchio certificato DOC. Eventi come Argillà o Buongiorno Ceramica! mostrano quanta importanza abbia quest’arte, la cui storia ed evoluzione segue un proprio filo narrativo nelle due realtà museali al centro di Faenza: il MIC - Museo Internazionale delle Ceramiche e il Museo Carlo Zauli. La lavorazione artistica dell’argilla non si esaurisce però con questa eccellenza. A Imola, ad esempio, quest’arte si mostra in tutta la sua preziosità nelle collezioni di ceramiche medievali e rinascimentali conservate presso la Rocca Sforzesca e a Palazzo Tozzoni mentre al Museo-Centro di Documentazione storico-artistica “G. Bucci” si ritrovano forme più contemporanee. A Cesena e nei dintorni si distingue la produzione di tradizionali decori e la tipica teglia in terracotta usata per la cottura della celebre piadina, che ha nel borgo di Montetiffi il suo storico centro di produzione. A Rimini, Montescudo e Montefiore Conca antiche botteghe specializzate in ceramica artistica e decorazioni di maioliche rappresentano un gioiello di conservazione della sapienza popolare e un polo attrattivo per chi vuole assistere di persona alle creazioni di queste opere d’arte.
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Faenza
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L’arte della ceramica L'arte antica del plasmare le materie prime e decorarle è ancora un segno distintivo di tutta l’Emilia Romagna, dove la produzione di ceramica è una delle realtà industriali e artigianali più rilevanti. Cuore di quest’arte è Faenza, sulla Via Emilia nel cuore della Romagna. Basti pensare che il termine “faïence” è tuttora utilizzato in alcune regioni d’Europa come sinonimo di maiolica. Da secoli nelle sue botteghe si tramandano i segreti delle forme e degli smalti e si perpetua lo spirito e la creatività con produzioni a marchio certificato DOC. Eventi come Argillà o Buongiorno Ceramica! mostrano quanta importanza abbia quest’arte, la cui storia ed evoluzione segue un proprio filo narrativo nelle due realtà museali al centro di Faenza: il MIC - Museo Internazionale delle Ceramiche e il Museo Carlo Zauli. La lavorazione artistica dell’argilla non si esaurisce però con questa eccellenza. A Imola, ad esempio, quest’arte si mostra in tutta la sua preziosità nelle collezioni di ceramiche medievali e rinascimentali conservate presso la Rocca Sforzesca e a Palazzo Tozzoni mentre al Museo-Centro di Documentazione storico-artistica “G. Bucci” si ritrovano forme più contemporanee. A Cesena e nei dintorni si distingue la produzione di tradizionali decori e la tipica teglia in terracotta usata per la cottura della celebre piadina, che ha nel borgo di Montetiffi il suo storico centro di produzione. A Rimini, Montescudo e Montefiore Conca antiche botteghe specializzate in ceramica artistica e decorazioni di maioliche rappresentano un gioiello di conservazione della sapienza popolare e un polo attrattivo per chi vuole assistere di persona alle creazioni di queste opere d’arte.

Mosaico

Il Mosaico Tante piccole tessere in pietra e vetro compongono la storia di questa antica arte arrivata in Italia tramite i contatti con l’oriente. I Greci, i Romani ma soprattutto i Bizantini seppero sfruttare appieno questa tecnica e il suo linguaggio per veicolare immagini, pensieri ed emozioni. In Emilia Romagna la sua patria è indiscutibilmente Ravenna, essendo stata l’ultima capitale dell’Impero d’Occidente e, dopo la parentesi gota di Teodorico, centro di potere del dominio bizantino in Italia. Un’eredità che si tramanda di generazione in generazione grazie alle scuole dedicate al mosaico più famose e qualificate del mondo (come il Liceo Artistico "Nervi Severini", l’Accademia di Belle Arti e la Scuola per il Restauro del Mosaico), frequentate da allievi e artisti di tutte le nazionalità. Visitando la città si ha la possibilità di ammirare in sette dei suoi otto monumenti Unesco il più ricco patrimonio mondiale di mosaici antichi dei secoli V e VI, e al contempo entrare in una delle tante botteghe degli artigiani-artisti di cui il centro storico abbonda. Qui è possibile vedere con i propri occhi questa lavorazione, e perché no, anche provare a realizzare un’opera grazie ai tanti corsi sempre in programma. Ma a Ravenna il mosaico è dappertutto: nei musei, nelle insegne stradali, nei parchi, sulle fioriere e nelle vetrine dei centri storici, financo sui muri grazie alle invasioni che il celebre artista della street art internazionale Invader ha compiuto in città. Punto di partenza di ogni itinerario è sempre il Museo MAR. Ospitato all’interno del complesso monumentale della Loggetta Lombardesca, questo spazio raccoglie una vasta collezione in divenire di opere contemporanee e inoltre sede del CIDM, il centro internazionale di studio del mosaico. Da non perdere assolutamente è RavennaMosaico, il festival internazionale che ogni due anni chiama a raccolta artisti e scuole di mosaico di tutto il mondo.
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Ravenna
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Il Mosaico Tante piccole tessere in pietra e vetro compongono la storia di questa antica arte arrivata in Italia tramite i contatti con l’oriente. I Greci, i Romani ma soprattutto i Bizantini seppero sfruttare appieno questa tecnica e il suo linguaggio per veicolare immagini, pensieri ed emozioni. In Emilia Romagna la sua patria è indiscutibilmente Ravenna, essendo stata l’ultima capitale dell’Impero d’Occidente e, dopo la parentesi gota di Teodorico, centro di potere del dominio bizantino in Italia. Un’eredità che si tramanda di generazione in generazione grazie alle scuole dedicate al mosaico più famose e qualificate del mondo (come il Liceo Artistico "Nervi Severini", l’Accademia di Belle Arti e la Scuola per il Restauro del Mosaico), frequentate da allievi e artisti di tutte le nazionalità. Visitando la città si ha la possibilità di ammirare in sette dei suoi otto monumenti Unesco il più ricco patrimonio mondiale di mosaici antichi dei secoli V e VI, e al contempo entrare in una delle tante botteghe degli artigiani-artisti di cui il centro storico abbonda. Qui è possibile vedere con i propri occhi questa lavorazione, e perché no, anche provare a realizzare un’opera grazie ai tanti corsi sempre in programma. Ma a Ravenna il mosaico è dappertutto: nei musei, nelle insegne stradali, nei parchi, sulle fioriere e nelle vetrine dei centri storici, financo sui muri grazie alle invasioni che il celebre artista della street art internazionale Invader ha compiuto in città. Punto di partenza di ogni itinerario è sempre il Museo MAR. Ospitato all’interno del complesso monumentale della Loggetta Lombardesca, questo spazio raccoglie una vasta collezione in divenire di opere contemporanee e inoltre sede del CIDM, il centro internazionale di studio del mosaico. Da non perdere assolutamente è RavennaMosaico, il festival internazionale che ogni due anni chiama a raccolta artisti e scuole di mosaico di tutto il mondo.

Canto

La bovara è un canto popolare lirico monostrofico composto da un distico di endecasillabi[1] tipico della Romagna. Si basa su scale modali medievali paragonabili a quelle in uso nel canto gregoriano, ma con una interna mobilità modale evidenziata dagli studi di Tullia Magrini (1982), e per questo caratterizza la Romagna come una delle poche aree europee che conservano caratteri melodici così arcaici. La bovara era utilizzata durante il lavoro di aratura nei campi. Il bovaro scambiava il canto (quasi urlato per giungere lontano) con altri contadini che rispondevano a quel canto in un'alternanza di distici. Il canto è progressivamente scomparso nell'uso tipico in campagna, con l'avvento della meccanizzazione in agricoltura[2] e oggi si rinviene solo come ricordo, totalmente defunzionalizzato, tra gli informatori più anziani. Tra le più consistenti raccolte di bovare ormai defunzionalizzate, si ricorda la ricerca sul campo svolta negli anni Ottanta del Novecento dall'etnomusicologo Fabio Lombardi.[3] Raccolta che segue di pochi anni il precedente lavoro di Tullia Magrini e Giuseppe Bellosi, che ha il fondamentale pregio di inquadrare scientificamente il genere[4]. Fabio Lombardi, Canti e strumenti popolari della Romagna bidentina. Canzoni, ninne-nanne, filastrocche, balli, canti di nozze, stornelle, urli, bovare, strumenti e altro ancora, in una memorabile raccolta dei canti e della musica popolare della valle del Bidente.
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Forli
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La bovara è un canto popolare lirico monostrofico composto da un distico di endecasillabi[1] tipico della Romagna. Si basa su scale modali medievali paragonabili a quelle in uso nel canto gregoriano, ma con una interna mobilità modale evidenziata dagli studi di Tullia Magrini (1982), e per questo caratterizza la Romagna come una delle poche aree europee che conservano caratteri melodici così arcaici. La bovara era utilizzata durante il lavoro di aratura nei campi. Il bovaro scambiava il canto (quasi urlato per giungere lontano) con altri contadini che rispondevano a quel canto in un'alternanza di distici. Il canto è progressivamente scomparso nell'uso tipico in campagna, con l'avvento della meccanizzazione in agricoltura[2] e oggi si rinviene solo come ricordo, totalmente defunzionalizzato, tra gli informatori più anziani. Tra le più consistenti raccolte di bovare ormai defunzionalizzate, si ricorda la ricerca sul campo svolta negli anni Ottanta del Novecento dall'etnomusicologo Fabio Lombardi.[3] Raccolta che segue di pochi anni il precedente lavoro di Tullia Magrini e Giuseppe Bellosi, che ha il fondamentale pregio di inquadrare scientificamente il genere[4]. Fabio Lombardi, Canti e strumenti popolari della Romagna bidentina. Canzoni, ninne-nanne, filastrocche, balli, canti di nozze, stornelle, urli, bovare, strumenti e altro ancora, in una memorabile raccolta dei canti e della musica popolare della valle del Bidente.
Una stornella è un canto lirico monostrofico popolare tipico della Romagna. Si differenzia dallo stornello toscano e romano per il suo carattere arcaico, non confrontabile con la moderna teoria armonica e quindi non accompagnabile con accordi come potrebbe avvenire per lo stornello toscano. Si basa infatti su scale modali medievali paragonabili a quelle in uso nel canto gregoriano, ma con una interna mobilità modale evidenziata dagli studi di Tullia Magrini, e per questo caratterizza la Romagna come una delle poche aree europee che conservano caratteri melodici così arcaici. Il canto delle stornelle in Romagna, oggi, non esiste più nella memoria popolare collettiva, solo pochi anziani ricordano ancora frammenti di quel passato musicale. I testi servivano anche per azzardare offese verso un contendente senza provocarne reazioni, poiché la Stornella era un terreno neutro entro il quale ci si poteva muovere impunemente utilizzando un codice verbale e musicale condiviso e accettato anche in quelle circostanze. La stornella è cantata su quattro strofe di endecasillabi, spesso improvvisati e cantati alternativamente tra esecutori che un tempo si sfidavano su argomenti specifici o liberi. Canto simile ma su due sole strofe di endecasillabi è la bovara. Un tempo i cantori più bravi si sfidavano cantando a turno una stornella alla volta, in alternanza, con regole precise basate sulla conduzione dei testi e sulle rime da "attaccare" alle precedenti, fino a quando uno dei due non avesse finito gli argomenti, perdendo la sfida. Questo canto è testimoniato nelle ricerche etnografiche almeno fin dall'Ottocento (Placucci, Pergoli) e poi nel Novecento (ad esempio Pratella), nel secondo dopoguerra si hanno le prime raccolte con registrazione magnetofonica e le successive analisi musicali (entrambe, in primo luogo, effettuate da Tullia Magrini, col supporto di Giuseppe Bellosi, esperto di dialetto romagnolo) hanno evidenziato il carattere assolutamente arcaico e unico per l'Europa (presente in altre limitate zone che si affacciano sul Mediterraneo) di questi canti che presentano uso di scale modali e mobilità modale. Una delle ultime cospicue raccolte di stornelle con registrazione dalla viva voce di anziani testimoni di questo canto popolare, è stata effettuata tra il 1980 e il 1985 da Fabio Lombardi nella vallata del Bidente (Forlì).
Civitella di Romagna
Una stornella è un canto lirico monostrofico popolare tipico della Romagna. Si differenzia dallo stornello toscano e romano per il suo carattere arcaico, non confrontabile con la moderna teoria armonica e quindi non accompagnabile con accordi come potrebbe avvenire per lo stornello toscano. Si basa infatti su scale modali medievali paragonabili a quelle in uso nel canto gregoriano, ma con una interna mobilità modale evidenziata dagli studi di Tullia Magrini, e per questo caratterizza la Romagna come una delle poche aree europee che conservano caratteri melodici così arcaici. Il canto delle stornelle in Romagna, oggi, non esiste più nella memoria popolare collettiva, solo pochi anziani ricordano ancora frammenti di quel passato musicale. I testi servivano anche per azzardare offese verso un contendente senza provocarne reazioni, poiché la Stornella era un terreno neutro entro il quale ci si poteva muovere impunemente utilizzando un codice verbale e musicale condiviso e accettato anche in quelle circostanze. La stornella è cantata su quattro strofe di endecasillabi, spesso improvvisati e cantati alternativamente tra esecutori che un tempo si sfidavano su argomenti specifici o liberi. Canto simile ma su due sole strofe di endecasillabi è la bovara. Un tempo i cantori più bravi si sfidavano cantando a turno una stornella alla volta, in alternanza, con regole precise basate sulla conduzione dei testi e sulle rime da "attaccare" alle precedenti, fino a quando uno dei due non avesse finito gli argomenti, perdendo la sfida. Questo canto è testimoniato nelle ricerche etnografiche almeno fin dall'Ottocento (Placucci, Pergoli) e poi nel Novecento (ad esempio Pratella), nel secondo dopoguerra si hanno le prime raccolte con registrazione magnetofonica e le successive analisi musicali (entrambe, in primo luogo, effettuate da Tullia Magrini, col supporto di Giuseppe Bellosi, esperto di dialetto romagnolo) hanno evidenziato il carattere assolutamente arcaico e unico per l'Europa (presente in altre limitate zone che si affacciano sul Mediterraneo) di questi canti che presentano uso di scale modali e mobilità modale. Una delle ultime cospicue raccolte di stornelle con registrazione dalla viva voce di anziani testimoni di questo canto popolare, è stata effettuata tra il 1980 e il 1985 da Fabio Lombardi nella vallata del Bidente (Forlì).
Le zirudelle Le zirudelle sono una forma di canzoni miste a filastrocche che hanno costituito un vero e proprio genere espressivo. Il vigore e la salacità di certi modi dire, a volte sin troppo schietti per un orecchio suscettibile, fanno comunque del dialetto una componente fondamentale di quel carattere gioviale e aperto che è la caratteristica riconosciuta della "romagnolità".
Galeata
Le zirudelle Le zirudelle sono una forma di canzoni miste a filastrocche che hanno costituito un vero e proprio genere espressivo. Il vigore e la salacità di certi modi dire, a volte sin troppo schietti per un orecchio suscettibile, fanno comunque del dialetto una componente fondamentale di quel carattere gioviale e aperto che è la caratteristica riconosciuta della "romagnolità".

Etnomusicologia

La Etnorganologia è una branca della etnomusicologia che si occupa di strumenti musicali popolari o etnici. Ogni cultura della terra, di oggi o del passato, ha utilizzato oggetti in grado di produrre suono in maniera organizzata e definita in base ai propri codici culturali musicali. Ciò implica la contemporanea presenza di oggetti e strumenti musicali simili o identici all'interno di numerose culture, strumenti che hanno nomi differenti (vari significanti, ma stesso significato). Per poter catalogare e studiare più agevolmente gli strumenti musicali sono state proposte, proprio dagli etnorganologi delle classificazioni organologiche.
Fabio Lombardi (Meldola, 1961) è un etnomusicologo e organologo italiano, che ha studiato all'Università di Bologna con Roberto Leydi, Tullia Magrini e con l'organologo Febo Guizzi. Biografia Negli anni ottanta del XX secolo ha svolto una ricerca sul campo etno-musicale in Emilia-Romagna, vicino a Forlì e lungo la val Bidente (Meldola, Cusercoli, Bertinoro, Predappio, Forlimpopoli, Civitella, Galeata, Santa Sofia, Bagno di Romagna) che ha contribuito alla riscoperta della musica etnica italiana; in particolare per quanto riguarda gli strumenti musicali, scoprendone alcuni precedentemente ignoti. Tra gli strumenti documentati a livello etno organologico (in tutto 28, presentati in schede che forniscono dati puntuali su vari aspetti degli oggetti sonori, compresa la descrizione della tecnica costruttiva adoperata dagli informatori), ricordiamo il tamburo a frizione rotante che in Romagna è chiamato “Raganella”; simile ad altri in Italia – come ad esempio il “Mumusu” sardo o la “Rùocciula” calabra – per questo tipo di strumenti a Lombardi si devono le osservazioni sull'accentuazione della resa sonora per l'effetto Doppler. Quando il piccolo tamburo rotea, infatti, l'ascoltatore percepisce due picchi di frequenza modulati progressivamente ed alternativamente verso l'alto e verso il basso, per l'effetto Doppler e questo porta ad un suono simile al gracidare di rana da cui il nome dello strumento giocattolo. Altri strumenti sono la cetra pluricorde a zattera con fusti di saggina, il “Viulén”, cioè la cetra tubolare idiocorde con fusto di granturco, che in Calabria è realizzata con fusti di canna; il flauto diritto con zeppa ricavata da una scheggia di canna; lo Zufolo di Romagna, cioè un flauto a tre fori in legno tornito, probabilmente un tempo accoppiato ad un tamburo. Tra i clarinetti di canna ancora verde – con funzioni di strumento giocattolo effimero – ricordiamo quello a segmenti telescopici, sul modello di altri conosciuti in Italia, e un clarinetto traverso coi fori spostati di un quarto di giro rispetto al piano dell'ancia, per consentire la diteggiatura, attestato anche in Lazio sui Monti Lepini. Almeno tre strumenti indagati e raccolti da Fabio Lombardi, costruiti dall'informatore Adelmo Crociani di Montevecchio di Civitella (FC), sono conservati nel Fondo Roberto Leydi Strumenti musicali, Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona, Svizzera. Si tratta di: un oboe di corteccia arrotolata; un flauto diritto a bocca zeppata in legno di frassino; un flauto a coulisse in corteccia, in legno di frassino. Altri lavori di Lombardi riguardano un'opera divulgativa sui briganti in Romagna oltre ad argommenti relativi alla storia locale di Meldola, Riccione, Forlì, alla descrizione di alcune Pievi romagnole e all'indagine conoscitiva su quanto di musicale è contenuto nell'Archivio Piancastelli di Forlì.
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Meldola
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Fabio Lombardi (Meldola, 1961) è un etnomusicologo e organologo italiano, che ha studiato all'Università di Bologna con Roberto Leydi, Tullia Magrini e con l'organologo Febo Guizzi. Biografia Negli anni ottanta del XX secolo ha svolto una ricerca sul campo etno-musicale in Emilia-Romagna, vicino a Forlì e lungo la val Bidente (Meldola, Cusercoli, Bertinoro, Predappio, Forlimpopoli, Civitella, Galeata, Santa Sofia, Bagno di Romagna) che ha contribuito alla riscoperta della musica etnica italiana; in particolare per quanto riguarda gli strumenti musicali, scoprendone alcuni precedentemente ignoti. Tra gli strumenti documentati a livello etno organologico (in tutto 28, presentati in schede che forniscono dati puntuali su vari aspetti degli oggetti sonori, compresa la descrizione della tecnica costruttiva adoperata dagli informatori), ricordiamo il tamburo a frizione rotante che in Romagna è chiamato “Raganella”; simile ad altri in Italia – come ad esempio il “Mumusu” sardo o la “Rùocciula” calabra – per questo tipo di strumenti a Lombardi si devono le osservazioni sull'accentuazione della resa sonora per l'effetto Doppler. Quando il piccolo tamburo rotea, infatti, l'ascoltatore percepisce due picchi di frequenza modulati progressivamente ed alternativamente verso l'alto e verso il basso, per l'effetto Doppler e questo porta ad un suono simile al gracidare di rana da cui il nome dello strumento giocattolo. Altri strumenti sono la cetra pluricorde a zattera con fusti di saggina, il “Viulén”, cioè la cetra tubolare idiocorde con fusto di granturco, che in Calabria è realizzata con fusti di canna; il flauto diritto con zeppa ricavata da una scheggia di canna; lo Zufolo di Romagna, cioè un flauto a tre fori in legno tornito, probabilmente un tempo accoppiato ad un tamburo. Tra i clarinetti di canna ancora verde – con funzioni di strumento giocattolo effimero – ricordiamo quello a segmenti telescopici, sul modello di altri conosciuti in Italia, e un clarinetto traverso coi fori spostati di un quarto di giro rispetto al piano dell'ancia, per consentire la diteggiatura, attestato anche in Lazio sui Monti Lepini. Almeno tre strumenti indagati e raccolti da Fabio Lombardi, costruiti dall'informatore Adelmo Crociani di Montevecchio di Civitella (FC), sono conservati nel Fondo Roberto Leydi Strumenti musicali, Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona, Svizzera. Si tratta di: un oboe di corteccia arrotolata; un flauto diritto a bocca zeppata in legno di frassino; un flauto a coulisse in corteccia, in legno di frassino. Altri lavori di Lombardi riguardano un'opera divulgativa sui briganti in Romagna oltre ad argommenti relativi alla storia locale di Meldola, Riccione, Forlì, alla descrizione di alcune Pievi romagnole e all'indagine conoscitiva su quanto di musicale è contenuto nell'Archivio Piancastelli di Forlì.
Altri strumenti sono la cetra pluricorde a zattera con fusti di saggina, il “Viulén”, cioè la cetra tubolare idiocorde con fusto di granturco, che in Calabria è realizzata con fusti di canna; il flauto diritto con zeppa ricavata da una scheggia di canna; lo Zufolo di Romagna, cioè un flauto a tre fori in legno tornito, probabilmente un tempo accoppiato ad un tamburo. Tra i clarinetti di canna ancora verde – con funzioni di strumento giocattolo effimero – ricordiamo quello a segmenti telescopici, sul modello di altri conosciuti in Italia e un clarinetto traverso coi fori spostati di un quarto di giro rispetto al piano dell'ancia, per consentire la diteggiatura, attestato anche in Lazio sui Monti Lepini. Almeno tre strumenti indagati e raccolti da Fabio Lombardi, costruiti dall'informatore Adelmo Crociani di Montevecchio di Civitella (FC), sono conservati nel Fondo Roberto Leydi Strumenti musicali, Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona, Svizzera. Si tratta di: - un oboe di corteccia arrotolata; - un flauto diritto a bocca zeppata in legno di frassino; - un flauto a coulisse in corteccia, in legno di frassino. Altri lavori di Lombardi riguardano un'opera divulgativa sui briganti in Romagna oltre ad argomenti relativi alla storia locale di Meldola, Riccione, Forlì, alla descrizione di alcune Pievi romagnole e all'indagine conoscitiva su quanto di musicale è contenuto nell'Archivio Piancastelli di Forlì.
Galeata
Altri strumenti sono la cetra pluricorde a zattera con fusti di saggina, il “Viulén”, cioè la cetra tubolare idiocorde con fusto di granturco, che in Calabria è realizzata con fusti di canna; il flauto diritto con zeppa ricavata da una scheggia di canna; lo Zufolo di Romagna, cioè un flauto a tre fori in legno tornito, probabilmente un tempo accoppiato ad un tamburo. Tra i clarinetti di canna ancora verde – con funzioni di strumento giocattolo effimero – ricordiamo quello a segmenti telescopici, sul modello di altri conosciuti in Italia e un clarinetto traverso coi fori spostati di un quarto di giro rispetto al piano dell'ancia, per consentire la diteggiatura, attestato anche in Lazio sui Monti Lepini. Almeno tre strumenti indagati e raccolti da Fabio Lombardi, costruiti dall'informatore Adelmo Crociani di Montevecchio di Civitella (FC), sono conservati nel Fondo Roberto Leydi Strumenti musicali, Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona, Svizzera. Si tratta di: - un oboe di corteccia arrotolata; - un flauto diritto a bocca zeppata in legno di frassino; - un flauto a coulisse in corteccia, in legno di frassino. Altri lavori di Lombardi riguardano un'opera divulgativa sui briganti in Romagna oltre ad argomenti relativi alla storia locale di Meldola, Riccione, Forlì, alla descrizione di alcune Pievi romagnole e all'indagine conoscitiva su quanto di musicale è contenuto nell'Archivio Piancastelli di Forlì.

Tele romagnole

L'antica stampa a ruggine romagnola è un tecnica decorativa di tradizione secolare dalle origini umili che si avvale di strumenti antichi e, soprattutto, di un'abilità manuale sopraffina tramandata di generazione in generazione nella provincia di Forlì Cesena ed in parte di quelle di Ravenna e Rimini. LA TRADIZIONE Ci sono tradizioni che riescono ad abbattere la barriera del tempo e a giungere inalterate fino ai giorni nostri. E' ciò che è successo ad una delle tecniche artigianali romagnole più affascinanti e caratteristiche: quella della stampa a ruggine. Tramandata di generazione in generazione da quattro secoli, questa forma di decorazione dei tessuti affonda le proprie radici nell'antica cultura contadina della zona meridionale dell'Emilia Romagna ed, in particolare, della provincia di Forlì-Cesena. Sin dal XVII secolo, infatti, era particolarmente diffusa l'usanza di imprimere su tela l'immagine del medaglione di Sant'Antonio Abate con particolari stampi in legno immersi in una tintura a base di prodotti naturali. Questi drappi venivano, poi, utilizzati per coprire il bestiame. Oltre che con lo stemma del Santo, i tessuti venivano decorati anche con motivi floreali o geometrici e con soggetti bucolici legati alla quotidianità della vita contadina che spaziavano dai galletti, ai grappoli d'uva sino alle cornucopie. LE CARATTERISTICHE La stampa a ruggine è una tecnica molto antica che si avvale di stampi in legno di pero o noce intagliati a mano che vengono immersi in una pasta colorata a base di farina, aceto e ruggine di ferro ed utilizzati per imprimere le immagini su tele di lino, cotone o canapa. La ruggine ha la caratteristica di fissarsi alle fibre del tessuto al punto che la decorazione risulta visibile anche sul retro del tessuto. Le tele vengono, poi, lasciate seccare e successivamente immerse in un bagno a base di soda caustica, un tempo ottenuto con cenere ed acqua per il fissaggio del disegno, per poi essere nuovamente lavate al fine di eliminare il colore in eccesso ed, infine, stese ad asciugare. La decorazione così ottenuta resiste a lungo al tempo e ai lavaggi. Per riconoscere le autentiche tele decorate con la stampa a ruggine occorre verificare che il disegno sia ben visibile su entrambi i lati e, soprattutto, che presenti delle piccole imprecisioni nell'orientamento dei disegni, nei contorni e nell'omogeneità del colore. Essendo, infatti, realizzate rigorosamente a mano le decorazioni non potranno mai essere identiche l'una a l'altra ed ogni prodotto si rivela, dunque, un pezzo unico. IL TERRITORIO Diffusa anche nelle zone di Ravenna e Rimini, questa tecnica artigianale è tipica soprattutto della provincia di Forlì Cesena. Per scongiurarne la scomparsa, vigilare sulle contraffazioni e tutelare le botteghe storiche (oggi circa una decina) e l'autenticità dei manufatti, a partire dal 1997 un gruppo di artigiani riminesi si è unito ai titolari delle stamperie che ancora si avvalgono degli strumenti e dei procedimenti tradizionali dando vita all'Associazione Stampatori Tele Romagnole.
STORIA Collocate storicamente nell'ambito dell'artigianato povero, legato agli strumenti dell'essenziale creatività contadina, ossia stampi in legno di pero, colori ottenuti dalla ruggine, canapa coltivata nei campi e tessuta dai telai casalinghi, le tele romagnole stampate a mano hanno, però, una data di nascita incerta ed antenati e consimili ancora più vaghi. Gli storici hanno trovato riferimenti molto lontani a tessuti "battuti": è certo che l'arte della stampa con blocchi fosse nota agli egizi. Per quanto i documenti più antichi in nostro possesso non vadano oltre i primi decenni dell'800, si può accreditare l'ipotesi che l'attività delle tele romagnole stampate a mano sia precedente. Infatti tale arte risulta diffusa nello Stato Pontificio, di cui la Romagna fece parte fino all'Unità d'Italia, sin dal XVII secolo. Appare realistico dunque, collocare le botteghe romagnole come le ultime sopravvissute di un gruppo operante nello Stato Pontificio e nella stessa Roma sino alla fine del '700. E' limitativo, comunque, relegare le tele stampate nell'alveo della tradizione contadine, è evidente, infatti, soprattutto analizzando la scelta di alcuni disegni (non tutti si ispirano al mondo agreste), l'intenzione di "copiare", con metodi semplici e di lieve impegno economico, tessuti pregiati, decori e ricami delle stoffe e degli ornamenti dei ricchi. Di certo l'ornato romagnolo ottenuto attraverso la stampa ebbe una sua discreta fortuna, oltreché come gualdrappa dei buoi, come abbellimento di coperte, asciugamani, grembiuli, cuscini, trapunte, tende e tovaglie, soluzioni ancora oggi tra le più apprezzate. Le tele romagnole stampate ebbero una notevole dffusione fino agli inizi del '900. Ma (corsi e ricorsi della moda che è tale proprio perché dimentica e poi riscopre) come scrive Aldo Spallicci, insigne poeta ed appassionato sostenitore delle tradizioni romagnole: " Nel 1910, distratta dalle mode d'Oltre Alpe, l'industria languiva. Giacevano alla rinfusa in oscure bottegucce dei tintori, i legni annosi così profondamente incisi dalla sgorbia e dallo scalpello degli avi". Al successo dei nostri giorni, che aasocia le tele stampate all'immagine stessa della tradizione romagnola, hanno dato un contributo determinante l'impegno e la passione delle poche stamperie (una decina in tutto) che non derogano al metodo tradizionale in favore di quello serigrafico, più comodo e produttivo, ma decisamente poco fedele allo spirito vero della tradizione di stampa su tela. IL METODO “Stampo, mazzuolo, colore e tela. Più tutta la perizia e la fantasia dell'artigiano stampatore". Così Fabio Visini, storico stampatore di Meldola oggi nominato presidente onorario dell'Associazione a merito della sua lunga esperienza, sintetizza il metodo della stampa. Ma qual è il procedimento di realizzazione? "Preparato il telo di stoffa grezza sul banco di lavoro, spiega Visini, si appoggia lo stampo sul tampone dove è stato sparso il colore, poi con mano ferma lo si appoggia sulla stoffa, canapa, lino o cotone, premendolo col braccio e battendolo col mazzuolo di legno affinché il disegno si imprima sulla tela. Martellando più o meno vivacemente a seconda della necessità, con regolarità o variazione di ritmo, si conferisce all'opera quel tono personale che contraddistingue la preziosità del lavoro dell'artigiano". Il bancone di stampa è leggermente imbottito per consentire alla matrice di legno di aderire alla tela in ogni suo punto. Lo stampo, opportunamente numerato, viene scelto tra una moltitudine di pezzi, il ricco patrimonio di ogni bottega, spesso disegnati ed intagliati dallo stesso stampatore. “Solo noi romagnoli, sottolinea Visini, conosciamo il segreto per preparare la pasta ruggine ed intagliare le matrici di legno". Già, il colore, un elemento su cui si sono accapigliati i puristi ma che, giocoforza, segue anche il gusto. La tradizione più pura è rigorosamente fedele alla ruggine. La pasta ruggine, nelle sue specifiche componenti, e soprattutto in relazione alle proporzioni dei suoi ingredienti, è il segreto di ogni stampatore, ma la sua composizione di base è nota. L'elemento principale è, naturalmente, il ferro dolce, opportunamente ossidato con aceto di vino in modo da produrre la ruggine. Ad esso viene aggiunto solfato di ferro legato con farina di frumento: ciò che ne risulta è una pasta collosa dall'intenso odore di aceto, che è la nota olfattiva che colpisce chi entra in una stamperia romagnola. Naturalmente la variazione delle proporzioni (l'occhio clinico dello stampatore) cambia le nuances del colore. Per gli altri colori, il blu, il verde, in varie gradazioni frutto del lavoro di ricerca cromatica effettuato dalle botteghe, si fa ricorso a basi minerali già sintetizzate chimicamente. Terminato il lavoro di stampa si passa alle successive fasi di asciugatura e il bagno di fissaggio che vira i colori. Dopo il fissaggio i tessuti vengono sottoposti a vigorose risciacquature, in modo che possano resistere ai lavaggi successivi da bucato e all'aggressione dei detersivi moderni, come un tempo resistevano alla prova della lisciva. I DISEGNI La catalogazione dei disegni più tipici delle stampe romagnole su tela rivela, contrariamente a quanto si possa pensare, un patrimonio multiforme che non si esaurisce nelle immagini di natura agreste che tanto favore hanno trovato un tempo, e che ancora oggi sono tra le più note: galletti, tralci di vite, grappoli d'uva, rustici boccali, pigne, spighe, tori infuriati, caveje (perno di collegamento tra il giogo dei buoi ed il carro), a richiamo di una romagnolità bucolica tradizionale e ormai scomparsa. Ogni stamperia ha il suo patrimonio di matrici, alcune del tutto originali, altre magari simili nei soggetti ma differenti nel tratto e nell'interpretazione. Ricco è il repertorio degli animali e delle scene animate, ricchissimo quello delle decorazioni floreali, e di grande efficacia quello dei disegni geometrici. Nel "bestiario" figurano aquile, pantere, grifoni, colmbe, donnole, salamandre, draghi e delfini, gallinelle, cervi e fagiani, più recente l'adozione dei pesci. Multiforme e difficilmente catalogabile per la sua straordinaria ricchezza di segno e fantasia è il vasto paniere dei clichès floreali. Di fatto molti motivi classici, ispirati a broccati, ricami, tappeti, appaiono come un surrogato povero dell'arte decorativa dei tessuti ricchi, i cui ornati si distinguono per essere ricamati o impressi sulle stoffe con metodi e colori ben più costosi. Dunque frequentazioni illustri e raffinate, che mostrano ancora una volta come sia impropria la catalogazione delle tele romagnole stampate a mano come arte contadina tout-court. Buona parte degli stampi è realizzata in pero, legno morbido, arrendevole all'incisione, resistente ai colpi del mazzuolo e una volta facilmente reperibile nelle campagne romagnole. I disegni vengono riportati su carta e poi impressi sul legno. Inizia quindi la fase dell'incisione della matrice, secondo il sistema xilografico dei caratteri di stampa. Armati di sgorbie e scalpelli gli artigiani scalzano il legno intorno alle parti che verranno impresse. E' un lavoro che richiede una discreta agilità manuale ma anche una buona dose di pazienza, solo da una buona matrice infatti si ottiene un bel disegno netto. Recentemente, gli stampatori maggiormente orientati all'innovazione, hanno infine sperimentato con successo gomme e resine, disegnate, intagliate ed applicate sul legno. Naturalmente, nei disegni a più colori, esistono tante matrici quanti sono i colori. La vita di una matrice, soprattutto se molto usata, non è lunghissima: si può spaccare sotto i colpi del mazzuolo, può perdere la sua nitidezza di stampa, cosicché gli stampatori devono affrontare un continuo lavoro di ripristino dei disegni su nuovi stampi. Numerosi matrici in disuso risalenti all'800 ed al '900 sono raccolte presso il Museo Etnografico di Forlì. COME RICONOSCERE L’ORIGINALITÀ DI UNA TELA STAMPATA ROMAGNOLA? [1] Anche sul rovescio della tela stampata a mano sono leggibili il disegno ed il colore della stampa. Sul rovescio risultano inoltre maggiormente percepibili disomogeneità ed imperfezioni [2] Il disegno stampato manualmente è il risultato di una composizione (per accostamento) di stampi, può quindi presentare lievi sfasature e connessioni [3] A differenza di quello ottenuto da stampa serigrafica che presenta tinta piatta e colore uniforme, il disegno stampato manualmente, a causa di diversi fattori, può presentare sfumature e diversa distribuzione del colore [4] Anche la ripetizione dello stesso disegno, per ragioni strettamente connesse alla manualità dell'operazione, può presentare differenze
Associazione Stampatori Tele Romagnole
32 Viale Gaspare Finali
STORIA Collocate storicamente nell'ambito dell'artigianato povero, legato agli strumenti dell'essenziale creatività contadina, ossia stampi in legno di pero, colori ottenuti dalla ruggine, canapa coltivata nei campi e tessuta dai telai casalinghi, le tele romagnole stampate a mano hanno, però, una data di nascita incerta ed antenati e consimili ancora più vaghi. Gli storici hanno trovato riferimenti molto lontani a tessuti "battuti": è certo che l'arte della stampa con blocchi fosse nota agli egizi. Per quanto i documenti più antichi in nostro possesso non vadano oltre i primi decenni dell'800, si può accreditare l'ipotesi che l'attività delle tele romagnole stampate a mano sia precedente. Infatti tale arte risulta diffusa nello Stato Pontificio, di cui la Romagna fece parte fino all'Unità d'Italia, sin dal XVII secolo. Appare realistico dunque, collocare le botteghe romagnole come le ultime sopravvissute di un gruppo operante nello Stato Pontificio e nella stessa Roma sino alla fine del '700. E' limitativo, comunque, relegare le tele stampate nell'alveo della tradizione contadine, è evidente, infatti, soprattutto analizzando la scelta di alcuni disegni (non tutti si ispirano al mondo agreste), l'intenzione di "copiare", con metodi semplici e di lieve impegno economico, tessuti pregiati, decori e ricami delle stoffe e degli ornamenti dei ricchi. Di certo l'ornato romagnolo ottenuto attraverso la stampa ebbe una sua discreta fortuna, oltreché come gualdrappa dei buoi, come abbellimento di coperte, asciugamani, grembiuli, cuscini, trapunte, tende e tovaglie, soluzioni ancora oggi tra le più apprezzate. Le tele romagnole stampate ebbero una notevole dffusione fino agli inizi del '900. Ma (corsi e ricorsi della moda che è tale proprio perché dimentica e poi riscopre) come scrive Aldo Spallicci, insigne poeta ed appassionato sostenitore delle tradizioni romagnole: " Nel 1910, distratta dalle mode d'Oltre Alpe, l'industria languiva. Giacevano alla rinfusa in oscure bottegucce dei tintori, i legni annosi così profondamente incisi dalla sgorbia e dallo scalpello degli avi". Al successo dei nostri giorni, che aasocia le tele stampate all'immagine stessa della tradizione romagnola, hanno dato un contributo determinante l'impegno e la passione delle poche stamperie (una decina in tutto) che non derogano al metodo tradizionale in favore di quello serigrafico, più comodo e produttivo, ma decisamente poco fedele allo spirito vero della tradizione di stampa su tela. IL METODO “Stampo, mazzuolo, colore e tela. Più tutta la perizia e la fantasia dell'artigiano stampatore". Così Fabio Visini, storico stampatore di Meldola oggi nominato presidente onorario dell'Associazione a merito della sua lunga esperienza, sintetizza il metodo della stampa. Ma qual è il procedimento di realizzazione? "Preparato il telo di stoffa grezza sul banco di lavoro, spiega Visini, si appoggia lo stampo sul tampone dove è stato sparso il colore, poi con mano ferma lo si appoggia sulla stoffa, canapa, lino o cotone, premendolo col braccio e battendolo col mazzuolo di legno affinché il disegno si imprima sulla tela. Martellando più o meno vivacemente a seconda della necessità, con regolarità o variazione di ritmo, si conferisce all'opera quel tono personale che contraddistingue la preziosità del lavoro dell'artigiano". Il bancone di stampa è leggermente imbottito per consentire alla matrice di legno di aderire alla tela in ogni suo punto. Lo stampo, opportunamente numerato, viene scelto tra una moltitudine di pezzi, il ricco patrimonio di ogni bottega, spesso disegnati ed intagliati dallo stesso stampatore. “Solo noi romagnoli, sottolinea Visini, conosciamo il segreto per preparare la pasta ruggine ed intagliare le matrici di legno". Già, il colore, un elemento su cui si sono accapigliati i puristi ma che, giocoforza, segue anche il gusto. La tradizione più pura è rigorosamente fedele alla ruggine. La pasta ruggine, nelle sue specifiche componenti, e soprattutto in relazione alle proporzioni dei suoi ingredienti, è il segreto di ogni stampatore, ma la sua composizione di base è nota. L'elemento principale è, naturalmente, il ferro dolce, opportunamente ossidato con aceto di vino in modo da produrre la ruggine. Ad esso viene aggiunto solfato di ferro legato con farina di frumento: ciò che ne risulta è una pasta collosa dall'intenso odore di aceto, che è la nota olfattiva che colpisce chi entra in una stamperia romagnola. Naturalmente la variazione delle proporzioni (l'occhio clinico dello stampatore) cambia le nuances del colore. Per gli altri colori, il blu, il verde, in varie gradazioni frutto del lavoro di ricerca cromatica effettuato dalle botteghe, si fa ricorso a basi minerali già sintetizzate chimicamente. Terminato il lavoro di stampa si passa alle successive fasi di asciugatura e il bagno di fissaggio che vira i colori. Dopo il fissaggio i tessuti vengono sottoposti a vigorose risciacquature, in modo che possano resistere ai lavaggi successivi da bucato e all'aggressione dei detersivi moderni, come un tempo resistevano alla prova della lisciva. I DISEGNI La catalogazione dei disegni più tipici delle stampe romagnole su tela rivela, contrariamente a quanto si possa pensare, un patrimonio multiforme che non si esaurisce nelle immagini di natura agreste che tanto favore hanno trovato un tempo, e che ancora oggi sono tra le più note: galletti, tralci di vite, grappoli d'uva, rustici boccali, pigne, spighe, tori infuriati, caveje (perno di collegamento tra il giogo dei buoi ed il carro), a richiamo di una romagnolità bucolica tradizionale e ormai scomparsa. Ogni stamperia ha il suo patrimonio di matrici, alcune del tutto originali, altre magari simili nei soggetti ma differenti nel tratto e nell'interpretazione. Ricco è il repertorio degli animali e delle scene animate, ricchissimo quello delle decorazioni floreali, e di grande efficacia quello dei disegni geometrici. Nel "bestiario" figurano aquile, pantere, grifoni, colmbe, donnole, salamandre, draghi e delfini, gallinelle, cervi e fagiani, più recente l'adozione dei pesci. Multiforme e difficilmente catalogabile per la sua straordinaria ricchezza di segno e fantasia è il vasto paniere dei clichès floreali. Di fatto molti motivi classici, ispirati a broccati, ricami, tappeti, appaiono come un surrogato povero dell'arte decorativa dei tessuti ricchi, i cui ornati si distinguono per essere ricamati o impressi sulle stoffe con metodi e colori ben più costosi. Dunque frequentazioni illustri e raffinate, che mostrano ancora una volta come sia impropria la catalogazione delle tele romagnole stampate a mano come arte contadina tout-court. Buona parte degli stampi è realizzata in pero, legno morbido, arrendevole all'incisione, resistente ai colpi del mazzuolo e una volta facilmente reperibile nelle campagne romagnole. I disegni vengono riportati su carta e poi impressi sul legno. Inizia quindi la fase dell'incisione della matrice, secondo il sistema xilografico dei caratteri di stampa. Armati di sgorbie e scalpelli gli artigiani scalzano il legno intorno alle parti che verranno impresse. E' un lavoro che richiede una discreta agilità manuale ma anche una buona dose di pazienza, solo da una buona matrice infatti si ottiene un bel disegno netto. Recentemente, gli stampatori maggiormente orientati all'innovazione, hanno infine sperimentato con successo gomme e resine, disegnate, intagliate ed applicate sul legno. Naturalmente, nei disegni a più colori, esistono tante matrici quanti sono i colori. La vita di una matrice, soprattutto se molto usata, non è lunghissima: si può spaccare sotto i colpi del mazzuolo, può perdere la sua nitidezza di stampa, cosicché gli stampatori devono affrontare un continuo lavoro di ripristino dei disegni su nuovi stampi. Numerosi matrici in disuso risalenti all'800 ed al '900 sono raccolte presso il Museo Etnografico di Forlì. COME RICONOSCERE L’ORIGINALITÀ DI UNA TELA STAMPATA ROMAGNOLA? [1] Anche sul rovescio della tela stampata a mano sono leggibili il disegno ed il colore della stampa. Sul rovescio risultano inoltre maggiormente percepibili disomogeneità ed imperfezioni [2] Il disegno stampato manualmente è il risultato di una composizione (per accostamento) di stampi, può quindi presentare lievi sfasature e connessioni [3] A differenza di quello ottenuto da stampa serigrafica che presenta tinta piatta e colore uniforme, il disegno stampato manualmente, a causa di diversi fattori, può presentare sfumature e diversa distribuzione del colore [4] Anche la ripetizione dello stesso disegno, per ragioni strettamente connesse alla manualità dell'operazione, può presentare differenze
Antica Stamperia Carpegna
4 Via Pieve
Carpegna
Santarcangelo di Romagna
Stamperia artigiana Marchi dal 1633
15 Via Cesare Battisti
Santarcangelo di Romagna
Stamperia Bertozzi
50 Largo M. Maestri
Gambettola
Stamperia Braghittoni
55 Via Fiorentini
Cesenatico
Carraie frazione di Ravenna
Stamperia Egidio Miserocchi
4 Via G. Miserocchi
Carraie frazione di Ravenna
STAMPERIA IL GUADO di Elena Balsamini
4 Via G. Tavani Arquati
Forli
Stamperia Pascucci
18 Via Giuseppe Verdi
Gambettola
Stamperia Ruggine
36 Via Agostino Bertani
Rimini